Foto da Wired.
Una parte dell'intervista di Simon Reynolds a David Byrne, contenuta in Totally Wired (Isbn Edizioni, 2010).
Quando hai iniziato a interessarti alla musica?
Probabilmente tutti a un certo punto si rendono conto che esiste altro oltre alla musica che ascoltano i tuoi genitori e la canzoncina di Thomas the Tank Engine – «Ooh, quella musica mi sta parlando». A me è successo a metà degli anni sessanta, musicalmente un periodo davvero aperto. Quindi non solo sentivo cose che sembravano dirette a me e ai miei amici, ma c’era di tutto. Tutto sembrava possibile. Sembrava che si potesse tirar fuori musica da qualunque cosa, fintanto che si aderiva a una vaga struttura di canzone pop, quindi c’era una selvaggia sensazione di libertà. Fu quello ad attirare la mia attenzione.
Da bambino non facesti i tuoi personali esperimenti di musica concreta?
Sì, mi ispiravo alle cose di cui avevo sentito parlare, fossero Cage o Stockhausen o i Beatles o chissà cosa. Mio padre aveva un piccolo registratore a bobine, così, a sedici anni o giù di lì, registravo delle cose, poi prendevo i nastri e li tagliavo, rimettevo in ordine i pezzi e li ribaltavo. Era la cosa più splendida e folle che avessi mai sentito! In quello stesso periodo mio padre mi aiutò a modificare il registratore così che potessi fare una sorta di multitraccia, suono su suono. Potevo registrare una traccia in maniera molto primitiva, ascoltarla e suonarci insieme, e quello sarebbe stato registrato sull’altro canale dello stereo. Non si poteva mai mixare ma si potevano sovrapporre i suoni. La cosa mi affascinò totalmente e cominciai a registrare le canzoni pop degli altri in quel modo.
La prima ondata di gruppi punk di New York con base attorno al cbgb’s e Max’s Kansas City era decisamente imbevuta del romanticismo rock e del bisogno di vivere al limite. Patti Smith e i Television uscivano dai sessanta, e prima ancora dai Beat – avevano l’aspetto e vivevano da bohémien. Mentre i Talking Heads avevano un aspetto più ordinato e un approccio più distaccato.
Alcuni dei gruppi stavano davvero continuando gli archetipi del rock’n’roll, sia nei suoni che nelle attitudini ribelli. Le pose da palco e i fuochi d’artificio chitarristici. Pensavo «Così non si dice niente di nuovo. è una versione più moscia dei Rolling Stones». I gesti non venivano pensati, erano solo ereditati. Come a dire «Questa è l’attitudine che si accompagna al territorio dei gruppi rock, i vestiti e le pose che devi fare tuoi». Pensavo «Vediamo se si può buttare via tutto questo, ripartire dal via e vedere cosa succede». Che significava salire sul palco con i vestiti che mettevi per strada e cantare senza posa, in una sorta di maniera non romantica ma appassionata. Pensai che non avere un’immagine fosse una maniera per tornare agli inizi. Dopo un po’ compresi che non avere nessuna immagine, ovviamente, significa avere un’immagine. Non puoi scapparne. Non appena metti piede sul palco, si entra nell’artificio. Così pensai «Devo trovare qualcos’altro su cui basarmi che non sia un cliché».
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