30/11/11

Musica e memoria nell’era di YouTube


Osservando YouTube da un punto di vista prettamente musicale, sono due gli aspetti che più sorprendono di questo nuovo mezzo di (post-)trasmissione. Il primo è il fatto che YouTube sia diventato una miniera di apparizioni televisive e filmati rarissimi un tempo gelosamente conservati e scambiati dai fan più accaniti. Tramite gli annunci sulle ultime pagine di Goldmine o Record Collector e le comunicazioni via fanzine o posta, i fan barattavano o vendevano le videocassette, copiate e ricopiate tante volte che l’immagine di Elvis o Bowie era ormai così distorta da essere quasi irriconoscibile. Oggi è tutto su YouTube, a disposizione gratuita di chi abbia voglia di cliccare.
Se penso a quanto mi sarebbe tornato utile mentre scrivevo Post-punk 1978-1984 (terminato circa diciotto mesi prima del lancio di YouTube, nell’inverno del 2005), le emozioni sono contrastanti: una frustrazione retrospettiva bilanciata da uno strano senso di sollievo. Sarebbe stata una risorsa eccezionale, ma con quanta facilità avrei potuto perdermi negli innumerevoli clip dal vivo, nei vecchi video e negli spezzoni televisivi.
L’altra evoluzione davvero interessante nell’ottica musicale è il modo in cui i fan hanno trasformato ampie regioni di questo videoarchivio in un semplice catalogo di documenti audio, caricando brani accompagnati da figure astratte in movimento stile screen-saver o immagini fisse (in molti casi una semplice istantanea della copertina del disco o dell’etichetta, oppure una ripresa sgranata del disco che gira sul piatto). Interi album vengono messi su YouTube, con la stessa immagine generica e casuale a fare da sfondo a tutte le canzoni. La combinazione di video musicali e file audio ha fatto di YouTube una biblioteca pubblica del suono registrato (per quanto disorganizzata e caotica, con poche lacune ma piena di ripetizioni e «copie danneggiate»). Si può persino «prendere in prestito» senza restituire, utilizzando programmi come Dirpy per convertire i video in mp3.
YouTube è molto più facile da consultare della mia enorme e disordinata collezione di dischi. Mi è addirittura capitato di scaricare dal web album che avevo già per evitare la fatica di mettermi a cercare negli scatoloni. E chi se ne importa se la qualità sonora del cd e del vinile è decisamente superiore: chi ha fretta si accontenta dell’mp3 (nel mio caso di solito ho bisogno di controllare qualche dettaglio specifico, di fatto trattando la musica come banca dati e non più come esperienza sonora coinvolgente). Lo stesso YouTube è un esempio di questo genere di compromesso tra qualità e convenienza, tipico della cultura digitale. «La qualità audio-video è pessima» osserva Hilderbrand, sottolineando come la definizione che appare tollerabile nella piccola finestra riveli tutta la pochezza della bassa risoluzione in modalità «schermo». Ma proprio come gli ascoltatori hanno accettato il sound esile e «inferiore» dell’mp3 grazie alla compattezza e alla facilità di scambio, nessuno sembra preoccuparsi della fedeltà ridotta della visione via computer (per giunta proprio mentre la tecnologia si muove in direzione contraria con la tv in alta definizione, gli impianti home-theatre in surround 5.0, i film in 3D e via dicendo).
In compenso, l’archivio online ci offre una possibilità d’accesso, un volume e una varietà ampiamente superiori in termini di quantità, se non di qualità. Abbiamo inoltre a disposizione il controllo della durata sotto il video, il che ci consente di trascinare rapidamente la barra di scorrimento fino al momento chiave del filmato (o della canzone). YouTube è un contenitore di stralci fondato sulla frammentazione di narrazioni più lunghe (il programma, il film, l’album), ma questa funzione ci incoraggia, in quanto spettatori, a scindere gli spezzoni culturali in unità ancora più piccole, erodendo insidiosamente la nostra capacità di concentrazione e la nostra volontà di lasciare che le esperienze si dischiudano. Ma è internet in quanto tale a rendere più fragile e incostante il nostro senso della temporalità: piluccando i dati senza posa, saltelliamo nervosamente qui e là in cerca del prossimo zuccherino istantaneo. YouTube incoraggia questa deriva per mezzo della barra laterale, l’elenco dei video ritenuti – spesso in virtù di una logica contorta – affini a quello che stiamo guardando. È difficile non cedere a una modalità di osservazione distratta e distaccata, a metà tra il navigare e lo zapping (se non fosse che il canale è sempre lo stesso, YouTube, ormai diventato una regione dell’impero di Google, che lo acquistò nell’ottobre 2006). Questa fuga a zigzag non collega solo un artista all’altro e un genere all’altro, ma è anche un viaggio nel tempo: i video- prodotti delle varie epoche sono mescolati indiscriminatamente e inseriti in un reticolo di link incrociati.

Simon Reynolds, Retromania, p. 89-91

22/11/11

NIRVANA - Da Hip-hop-rock 1985-2008



Da Hip-hop-rock 1985-2008, Isbn Edizioni, p. 135

L’unica spiegazione possibile è che molta gente non si rendesse conto di essere così arrabbiata e alienata. Una volta ogni morte di papa, arriva un gruppo che calza lo zeitgeist come un guanto; oggi quel gruppo sono i Nirvana. Oscillante com’è tra rabbia e rassegnazione, piena di uno spirito rivoluzionario immediatamente tarpato da un’amara ironia, Smells Like Teen Spirit è la Anarchy in the uk dei nuovi ventenni. «Nevermind» è uno spaccato dell’inconscio collettivo di questa vuotissima generazione: furia che implode, idealismo che si blocca o si dissipa, perché nessuno dei due impulsi può trovare uno sbocco costruttivo.
La copertina dell’lp dice tutto con un’immagine: un bimbo nudo che nuota in acque uterine, attirato in superficie da un dollaro infilato su un amo. I Nirvana dicono: non farlo, bambino! Se lasci il tuo beatifico liquido per questo mondo corrotto, sarà il primo e peggiore errore della tua vita.
I Nirvana sono provvidenziali anche in un altro senso. Dopo un’annata di gruppi che ci hanno inondato di una sempre più blanda e canonica estasi simulata, è un vero piacere ascoltare qualcosa che possiede una minima pulsione viscerale, un’aggressiva bordata di riff taglienti ed emorragie vocali. La strategia messa in atto dalla Scena, evadere dalla realtà abbandonandosi a un etereo mondo dei sogni, aveva il suo perché; ma oggi la concretezza appare più adeguata della trascendenza. L’anno prossimo si aprirà un varco tra il nuovo hard rock/neo-punk e l’avanguardia sperimentale (Papa Sprain, Main, ecc.): la Scena scomparirà dentro questo crepaccio. Se non altro, i Manic Street Preachers si saranno rivelati i Giovanni Battista della situazione, aprendo la strada all’avvento dei Nirvana britannici.

18/11/11

I 50 dischi dei noughties secondo Simon Reynolds

  
Signor Hulot riprende, cogliendo l'occasione per commentarla, la classifica dei 50 dischi degli anni zero che Reynolds ha pubblicato tempo fa sul suo imperdibile Blissblog.

Allora, cosa colpisce in questa classifica? Per prima cosa, Reynolds salta a piè pari tutta la linea indie e post-indie che rappresenta invece la colonna portante delle charts di autorevoli siti e riviste quali Pitchfork, Stylus e Inrockuptibles. Quindi niente Strokes, White Stripes e Arcade Fire, nessuna forma di retromania e revival garage, blues o punk. Mancano anche i baluardi dell'Americana indie, da Sufjan Stevens ai Midlake, dai Grizzly Bear agli Shins. Non ci sono nemmeno i paladini del nuovo rock evoluto ed enciclopedico, alla Tv On the Radio o i raffinati rivisitatori della tradizione come i Wilco. Out anche le trovate etnico-danzanti di M.I.A., il post rock fuori tempo massimo dei Sigur Rós (Reynolds se lo può permettere, dato che com'è noto di post-rock è stato il primo a parlare) o mostri sacri un po' ibernati quali Bjork e Beck.
Reynolds prova invece a fare una lista davvero non scontata, con alcune inclusioni che mettono tutti d'accordo (Discovery dei Daft Punk, i Radiohead di Kid A, The Blueprint di Jay Z), alcuni inserimenti di giovani artisti capaci di sposare qualità e trend (Joanna Newsom, Dirty Projectors, Arctic Monkeys e Vampire Weekend), personaggi di culto mai abbastanza celebrati (l'immenso J Dilla, le geniali electro-dadaiste Blectum from Blechdom, con ben due dischi a testa). Ci sono poi presenze che dimostrano l'assoluta mancanza di pregiudizi di SR, come quelle del progetto afrobeateggiante di Damon Albarn The Good The Bad and The Queen, di Kanye West e di Lily Allen. Poi, e qua viene l'interessante, ci sono un po' di scelte nette dettate dal gusto e dalla competenza: parecchia hauntology, con Belbury Poly, Focus Group, Moon Wiring Club & co. Un po' di esponenti dell'hardcore continuum, dal golden boy del grime Dizzee Rascal a Burial e Zomby. Sugli scudi Ariel Pink, cioè il profeta hypnagogico ante litteram, assieme ai suoi sodali inneggianti, gli Animal Collective, che stanno fuori dalle prime posizioni, ma considerando anche Panda Bear e il disco Danse Manatee, uscito col nome dei singoli membri, arrivano a tre presenze in classifica. E infine un paio di scommesse su gruppi che continuano a rimanere molto di nicchia, ma che Reynolds sostiene senza paura, come i dirompenti Micachu & The Shapes (da ascoltare anche l'incredibile disco di quest'anno con la London Sinfonietta) e i Black Moth Super Rainbow. Insomma, indipendenza di giudizio e ampiezza di vedute, cosa chiedere di più a un critico?
PS: Una spiegazione per The Streets in una "classe a sè stante": Reynolds si era dimenticato di inserirlo, forse influenzato dal netto declino qualitativo seguito ai primi due dischi di Mike Skinner, ma la statura di Original Pirate Material è tale da meritare una presenza incontestabile.  

1 Ariel Pink's Haunted Graffiti - The Doldrums
2 Dizzee Rascal - Boy In Da Corner
3 Vampire Weekend - s/t
4 The Focus Group - Hey Let Loose Your Love
5 Daft Punk - Discovery
6 Various Artists - Run the Road
7 Ariel Pink's Haunted Graffiti - Worn Copy
8 Belbury Poly - The Willows
9 The Good The Bad and the Queen - s/t
10  Scritti Politti - White Bread Black Beer
11 Radiohead - Kid A
12 Mordant Music - Dead Air
13 The Advisory Circle - Other Channels
14 Black Moth Super Rainbow -- Dandelion Gum
15 Burial- s/t
16 Micachu and the Shapes -- Jewellery
17 Jay-Z - The Blueprint
18 Moon Wiring Club - An Audience of Art Deco Eyes
19 Arctic Monkeys - Whatever People Say I Am, That's What I'm Not
20 Blectum from Blechdom - Haus De Snaus
21 Panda Bear - Person Pitch
22 Kanye West - The College Dropout
23  Isolee - Rest
24  The Avalanches - Since I Left You
25  Joanna Newsom - Ys
26  Hot Chip - Coming On Strong
27  The Dirty Projectors -- Bitte Orca
28  Terror Danjah - Gremlinz
29  J Dilla - The Shining
30 Lady Sovereign - Public Warning
31 Zomby - s/t
32 Portishead - Third
33  Villalobos - Alcachofa
34  J Dilla - Donuts
35  Blectum from Blechdom - The Messy Jesse Fiesta
36  Dolphins Into the Future - Mountains Saturnus
37  Animal Collective - Here Comes the Indian
38  Pulp - We Love Life
39  Cannibal Ox - Cold Vein
40  Sally Shapiro - Disco Romance
41  Clipse - Lord Willin'
42  Lily Allen - Alright Still
43  Kanye West - 808s & Heartbreak
44  High Places - s/t
45  Infinite Livez - Bush Meat
46  Pitman - It Takes a Nation of Tossers
47  Juana Molina - Son
48  Gang Gang Dance - Saint Dymphna
49  Avey Tare, Panda Bear & Geologist - Danse Manatee
50  Boards of Canada - Geogaddi



PREMIO SPECIALE "IN UNA CLASSE A SE STANTE"
The Streets - Original Pirate Material

15/11/11

Elogio di Giorgio Moroder

In effetti Moroder manca, in Retromania. Reynolds però l'ha citato nell'intervista che gli abbiamo fatto, e poi ci ha pensato Signor Hulot a scriverne con grande competenza, con un paio di video niente male presi da YouTube.

***
Il baffuto di Ortisei, oltre ad aver praticamente inventato l'electro-pop con la sua versione sintetica della musica disco (la pietra miliare è naturalmente la multiorgasmica I Feel Love cantata da Donna Summer), ha lanciato uno dei pochi generi che vedono un apporto originale dell'Italia alla musica dance e pop, cioè l'Euro-Disco, con la successiva incarnazione Italo, ovviamente. Reynolds, che di Moroder parla in qualche passaggio di Energy Flash, lo colloca in questo senso tra i precursori della House di Chicago. Poi, non contento, il genio tirolese ha compiuto formidabili scorribande a hollywood, incidendo a forza il suo nome in molti momenti ormai infiltrati nell'immaginario collettivo: basta pensare a Richard Gere in completo Armani che corre per le strade di LA sulla sua spider nera, all'inizio di American Gigolo, con "Call Me" dei Blondie (prodotta e in parte scritta da Moroder) che accompagna i titoli di testa; oppure a un assoluto gioiello di esagerazione hollywoodiana come "Take My Breath Away" suonata dai Berlin: piena estetica ottanta quella di Top Gun, ma quantomai attualissima con le riattivazioni hypnagogiche e Chill Wave del verbo sintetico e delle visioni eighties.
Per descrivere la sua musica mi viene da pensare a dei Kraftwerk cafoni e ipersessuati, con un immaginario che sta tra Scarface di De Palma e l'Ispettore Derrick, una perfetta fusione di sensi e suoni artificiali, camicie con colletti enormi e collane d'oro in mezzo a cristalline melodie elettroniche, come suggerito dall'intreccio di vocoderismi, quattro quarti disco, scale sintetizzate, melodie tirolesi e vocine maliziose della esageratissima "From Here to Eternity" del 1977, talmente piantata nel suo tempo da poter essere un pezzo di due giorni fa. O penso all'altro gioiello del periodo, quella "E=MC2" (con tanto di "Thank You, Albert" finale) che pare un'anticipazione dei Daft Punk di Discovery. Certo, il nostro, da buon artista totale, non ha mai rifiutato di confrontarsi con momenti di terrificante kitsch nazional-popolare (vi dice niente "Notti magiche, inseguendo un gol..."?), ma questo contribuisce in un certo senso alla sua statura di icona culturale assoluta. E fuori da ogni retorica vintage, il tema di Fuga di mezzanotte è un capolavoro inarrivabile del pop elettronico e della musica da film, e basterebbe questo per far rimanere nella storia (nella leggenda c'è già) il signor Giorgio Moroder.





11/11/11

Isbn intervista Simon Reynolds # Seconda parte

 

La seconda parte dell'intervista che abbiamo fatto a Simon Reynolds.
***

Quale sarà il prossimo passo del “riciclo musicale” nella nostra cultura?

Non lo so. La gente parla degli anni novanta come della next big zone, ma cosa ci troveranno da copiare, mi chiedo? Proprio in questo periodo il Goth, la Cold Wave e la Electronic Body Music dei tardi anni ottanta sembrano fonti piuttosto calde. Forse il “baggy” sound di Manchester (Happy Monday, Stone Roses) verrà riscoperto. 

Recentemente è stata ripubblicata la kindle version del tuo primo libro, Blissed out. È buffo scoprire che già nell’87 parlavi di una specie di legame con il passato (continue riedizioni e revisioni, “un’altra biografia di Bob Dylan” e via dicendo). Quali sono le differenze fondamentali tra la “nuova” retromania e le “vecchie” retromanie? 

La differenza principale sta nella scala, nell’intensità e nella dimensione del problema, che ha a che fare con la componente della cultura digitale della nostra epoca e con il dilagante fenomeno dell’archivismo della memoria pop su internet. È lì che si crea la “mania”.

Ovviamente il problema non è nato dal nulla, è andato crescendo per anni, anzi per decenni. Vedo un’analogia con il film su Al Gore Una scomoda verità. La gente, compreso Gore stesso, ha parlato del surriscaldamento globale e delle sue conseguenze per anni, per decenni. Ma questo non ha impedito al film di essere un contributo vitale e tempestivo al riguardo. Né significa che Gore avrebbe dovuto star zitto sulla questione, dopo essersi espresso abbondantemente al riguardo nel film. Allo stesso modo, il rétro ha una storia e un’evoluzione che comincia decenni fa, ma non ho dubbi sul fatto che il fenomeno sia aumentato drasticamente negli ultimi dieci o dodici anni, e che sia qualcosa di cui ci dobbiamo occupare. Bisogna farsi delle domande! 

Nel regno iper-statico della cultura digitale – in cui il tempo è orizzontale e quasi ogni suono creato nel passato può essere facilmente riascoltato e la possibilità del cambiamento lineare sta svanendo – ha ancora un senso l’idea del potere trasformativo della musica? È ancora possibile essere sorpresi da qualcosa? 

Immagino che possiamo solo scoprire se qualcuno fa musica trasformativa, e capire se possiamo reagire alla sua sfida. Riguardo all’essere sorpresi, naturalmente spero di sì. Penso che potrebbe ancora succedermi di essere sorpreso. Sono pronto, volenteroso e in desideroso di esserlo! 

L’immenso archivio di YouTube è un’enorme risorsa per gli ascoltatori. Scaricare – legalmente o meno – ci permette di avere molta più musica di quella che possiamo realisticamente ascoltare. Si possono ascoltare file mp3 di tutti i tipi, provenienti da tutto il mondo. Tutta questa musica potrebbe costituire un problema per la nostra limitata capacità di ascolto? Stiamo diventando musicalmente onnivori ma allo stesso tempo anche un po’ superficiali? 

Sì. Questo è uno degli argomenti che tratto di più nel libro. Una delle mie preoccupazioni è l’assottigliarsi dell’esperienza musicale, una sorta di fruizione satura, distratta e dispersiva. 

Cosa pensi della musica italiana? C’è qualche gruppo o cantante italiano che ti piace, contemporaneo o dei decenni scorsi? 

Non so un granché della scena contemporanea, però ho visto una band di grande effetto all’Arca Puccini festival a Pistoia, si chiama Topsy the Great, è rock strumentale high energy intenso, tra l’hardcore, il metal e il math rock, con la batteria come strumento principale.

Dagli scorsi decenni, mi è piaciuto un po’ di progressive rock italiano che ho sentito e ovviamente giganti del soundtrack come Morricone e Goblin. E anche mostri della disco music come Moroder e Daniele Baldelli. Ho sentito alcuni bravi artisti techno italiani come Lory D e Leo Anibaldi. Ah, poi sono un grande fan dei vostri compositori di avanguardia come Nono, Berio e Maderna. 

Il libro ha una forte connotazione autobiografica. È pieno di ricordi e storie personali: la caccia alle mappe degli autobus che ha assorbito tuo figlio e te a New York; strani incontri con maniaci del rétro durante gli anni universitari, la sensazione straniante di avere un figlio cresciuto in America con cui non puoi condividere l’atmosfera culturale in cui sei cresciuto tu. Retromania è un ritratto del critico musicale di mezz’età? 

Tutti i miei libri sono personali, nel senso che non esisterebbero senza la mia passione e ossessivo interesse per la scena musicale e senza li mio coinvolgimento sul campo, come per i rave negli anni novanta o per il post-punk quand’ero ragazzo. Ma sicuramente in Retromania c’è più memoria emotiva e più aneddotica, pesca dalla mia storia personale più dei libri precedenti ed è inseparabile dal mio punto di vista, quello di chi c’era durante tutti i periodi di cui parlo. Perciò in quel senso è il libro di un uomo di mezza età. Credo che le mie considerazioni siano accessibili a lettori di tutte le età, ma non tutti le sentirebbero con la stessa di chi ha trenta, quaranta, cinquant’anni oggi: quelli che hanno vissuto negli anni sessanta o nell’epoca del post-punk, o in quella dei techno-rave dei novanta. Il libro ha un elemento immediato ed esperienziale che aggiunge un carico emozionale a Retromania sia per chi scrive che per chi legge.
 

Puoi anticiparci qualcosa sul tuo prossimo lavoro? Quale sarà l’argomento del libro? 

Non dico nulla per scaramanzia perché il libro non è ancora stato ufficialmente proposto. Ma se il libro si farà, sarà un grande passo per me: parla sempre di musica, ma esplora aspetti che non ho mai esplorato prima. La mia speranza per i prossimi libri è riuscire a fare cose che mi mettano alla prova e mi portino in direzioni diverse ogni volta.


08/11/11

Isbn intervista Simon Reynolds # Prima parte


Abbiamo fatto qualche domanda a Simon Reynolds a proposito di Retromania, delle tesi contenute nel suo libro e delle sue preferenze musicali.
***
Qual è stato l’evento – se ce n’è stato uno – che ti ha fatto decidere di scrivere un libro come Retromania?
La scintilla ha iniziato a scattarmi dentro durante gli anni 2000: la sensazione che la musica pop fosse ormai del tutto succube di un’attrazione fatale nei confronti della sua stessa storia, accumulata nel corso degli anni. Questa tendenza poteva essere arginata? mi chiedevo. Oppure ci stavamo inesorabilmente dirigendo verso una sorta di buco nero del pop? Non è facile segnalare il momento della svolta, anche se l’album dei Beatles Love – un remix mash-up dei più grandi successi del gruppo, realizzato da George Martin e suo figlio Giles – mi è sembrato l’esempio emblematico del nostro desiderio collettivo di riconsumare e rivisitare senza sosta gli anni d’oro del rock.

In Retromania ci sono tesi forti e originali – in alcuni casi impopolari – molta sociologia e filosofia; d’altra parte, sembra esserci meno storia e critica musicale rispetto ai tuoi ultimi libri. Come pensi che i lettori italiani reagiranno a tutto ciò?
Credo ci sia, come sempre, tanta storia e critica musicale – in un certo senso il libro è una specie di “storia del presente”, del significato del pop e del rock nei primi undici anni del Ventunesimo secolo. Di certo c’è molta critica musicale, solo che si tratta quasi sempre di critica dai toni negativi. Di sicuro è il mio primo libro che non sia stato scritto sotto la spinta principale dell’entusiasmo. E c’è anche meno descrizione diretta e meno evocazione della musica intesa come suono. Stando a quelle che sono state le reazioni negli Usa e in Inghilterra, credo che i fan e i lettori italiani avranno modo di divertirsi molto. Per me essere uno scrittore di musica significa ragionare in termini di odio/amore, e questa volta il concetto di base del libro tende maggiormente verso l’odio. Ma solo perché amo davvero tanto la musica e ho sempre grandi aspettative in proposito! In realtà uno degli obiettivi del libro è l’erosione della mentalità dell’odio/amore, quella che io chiamo gusto dell’o/o. È stata rimpiazzata da una sorta di debole eclettismo, la modalità shuffle tipica dell’iPod per cui ci piacciono un sacco di cose ma nessuna ci provoca una vera ossessione o fanatismo.
Il nucleo centrale del tuo libro è il fatto che la nostra era musicale – così come la cultura pop – sia caratterizzata dalla costante e continua esplorazione del passato. Negli ultimi 15 anni, più o meno, non ci sono stati artisti o band in grado di realizzare qualcosa di veramente nuovo. Ma non pensi che gente come Arcade Fire, Arctic Monkeys, Bon Iver o Kanye West stiano costruendo un suono nuovo e innovativo, senza guardare tanto al passato?
Non ho detto che negli ultimi 15 anni non ci sono state band che abbiano fatto qualcosa di innovativo. Ma, di sicuro, nel Ventunesimo secolo non ci sono stati movimenti musicali paragonabili, in termini di rilevanza o di effettiva novità, al rap o al rave, al punk o al metal. Molte band attive al giorno d’oggi o contribuiscono a una lunga e stabile tradizione, alla quale aggiungono piccole e impercettibili modifiche, oppure mettono insieme due o più tradizioni esistenti, per crearne una relativamente nuova. I Vampire Weekend ne sono un buon esempio. Così come molti gruppi dell’area dubstep. Per quel che riguarda gli esempi specifici:
Gli Arcade Fire, per me, suonano come la “grande musica” degli anni 80, come poi è stata definita – l’epico postpunk-da-stadio dei Waterboys, Echo & the Bunnymen, e così via. Ammetto che si tratta di un gruppo di una certa importanza, ma non riesco a capire cosa renda la loro musica davvero innovativa.
Gli Arctic Monkeys sono una grande band, il loro primo disco è stato uno dei miei preferiti del decennio. Ma loro agiscono in una zona ben definita, sia dal punto di vista dei testi che della musica: la tradizione del pop-rock inglese che include Smiths, Pulp, Libertines, e così via. Nei loro dischi c’è poco che non sia stato già realizzato, da un punto di vista musicale, negli anni 80.
Bon Iver: non credo ci sia nulla nei suoi dischi che non sia stato già fatto negli anni 80, forse anche nei 70. Il suo ultimo disco è apertamente in debito con il soft-rock Americano dei 70-80.
Kanye West ha fatto della grande musica, ma la maggior parte dei suoi lavori si basa sul sampling. Spesso si tratta di grossi pezzi di musica già esistente. Qualche volta è fatto in modo particolarmente brillante (“Through the Fire”, basato su “Through the Wire” di Chakha Khan) ma qualche altra volta non tanto (le canzoni che si basano in modo più evidente sulle tracce di Daft Punk e Curtis Mayfield).  La maggior parte delle innovazioni di Kanye sono nelle liriche e nel flow, e anche nel suo “personaggio” e nella sperimentazione del gestire la celebrità attraverso I media digitali, come per esempio twitter.
Qual è il gruppo retromaniaco contemporaneo che ami ascoltare? In altre parole, chi pensi realizzi al meglio la musica senza fare nulla di nuovo?
Ovviamente adoro Ariel Pink, e in un certo senso è lui l’eroe di Retromania. E insieme a lui ci sono un sacco di altri gruppi che mi piacciono che non stanno realmente aggiungendo nulla di nuovo al linguaggio musicale già esistente. Ma sono ugualmente molto bravi e divertenti da ascoltare. Qualche tempo fa mi è piaciuto l’album Kaputt di Destroyer, che è basato in modo molto consapevole e meticoloso sul sound patinato del pop di metà anni 80, come quello dei Prefab Sprout, dei Blue Nile, Roxy Music e Avalon. Non so perché proprio questo disco, nella sua grande produzione, suoni così vicino a quell’era musicale specifica, ma provo un piacere particolare nell’ascoltarlo, perché ai tempi ho amato sia i Prefab che i Blue Nile. (CONTINUA...)