13/12/11

Cosa diavolo ne sarà della mia collezione?



Un giorno la realtà mi ha colpito come un pugno in faccia: avevo accumulato un immenso archivio personale di prodotti audio.
Certo, potevo attribuirlo all’incessante fiume di dischi omaggio che ricevo per posta, ma la verità era che avevo imboccato questa strada ben prima di diventare un giornalista musicale. Nella Oxford di metà anni ottanta, da ex studente che viveva del sussidio di disoccupazione, registravo su cassetta gli lp delle biblioteche pubbliche, «giusto in caso»; poi, quando cominciai a guadagnarmi da vivere come freelance, presi a comprare ogni disco che mi incuriosiva.
Confesso, non senza vergogna, che alcuni sono ancora avvolti nella pellicola di plastica. (Ma non dimentichiamo che nel xx secolo Walter Benjamin – il grande filosofo del collezionismo, del curiosare nei negozi e di quello che oggi chiameremmo vintage shopping – sosteneva che «la non lettura dei libri» fosse un tratto distintivo del vero bibliomane, citando il caso di Anatole France, il quale ammetteva candidamente di aver letto a malapena un decimo dei volumi della sua biblioteca.) Quando il vinile riempie gli scaffali e i ripostigli di tutta la casa, quando hai altri dischi chiusi negli armadietti metallici in cantina, quando quindici anni dopo esserti trasferito negli Stati Uniti hai ancora un box a Londra pieno di cd, cassette, lp e singoli... be’, è ora di affrontare la realtà. Sei un collezionista, per giunta cronico, e hai superato da un pezzo la fase in cui non era che un semplice passatempo gestibile e salutare. Un accumulo così gigantesco di musica registrata esercita inevitabilmente una certa pressione subliminale. Inizi a chiederti non già se riuscirai a fare nuove scoperte, ma se ti rimangono abbastanza giorni da vivere per poter riascoltare almeno una volta le cose che ti piacciono.
L’equivalente musical-ossessivo della crisi di mezza età è quando tutte quelle potenziali meraviglie impilate sulle mensole smettono di darti piacere e cominciano a somigliare a messaggeri di morte.
Ironia crudele, perché l’interpretazione psicanalitica standard del collezionismo compulsivo lo vede come un tentativo di scongiurare la morte, o quantomeno di rimuovere quelle ansie astratte e inconsolabili spesso radicate nei sentimenti di smarrimento infantile. Avere tanta roba, secondo la logica inconscia, ci protegge dalla perdita, ma questa stessa roba un giorno finirà per ricordarci l’ineluttabilità della perdita. «L’idea di morire mi terrorizza» dice Gareth Goddard, collezionista e fondatore dell’etichetta di ristampe Cherrystones. «Perché penso: “Cosa diavolo ne sarà della mia collezione?”».
Lo confesso, il pensiero della fine che faranno i miei dischi quando non ci sarò più a volte mi balugina nella mente. Non che mia moglie non avrà questioni molto più urgenti da affrontare, ma quante
volte le ho ripetuto che non dovrà portarli al primo centro dell’Esercito della Salvezza. Sono consapevole del loro valore, ma non è solo questo: è il timore che i miei preziosi dischi vengano maltrattati. A livello profondo, è come se Gareth Goddard e io fossimo già in lutto per la nostra scomparsa. I dischi sono noi, rappresentano una porzione rilevante di ciò che abbiamo fatto del nostro tempo su questo pianeta, le ore d’impegno e amore di cui nessuno sa.

Retromania, pag. 114-115

05/12/11

Thurston Moore in Italia


Il leader dei Sonic Youth, Thurston Moore, sarà in Italia per la presentazione del suo ultimo disco: Demolished Thoughts, un lavoro davvero molto valido. Il cantante sarà anche Thurston Moore in concerto a Milano, 9 dicembre Eventi a Milano
a Milano il 9 dicembre alle 21 al Teatro Dal Verme. E troverete anche i nostri libri.



Qui i Sonic Youth presentati da Simon Reynolds in Post-punk:

Agli esordi, i Sonic Youth mostravano segni di anglofilia e risentivano dell’influenza dei PiL (Richard Edson, il primo batterista, suonava anche con i Konk, aspiranti «Pigbag» della 99 Records). Con “Confusion Is Sex” del 1983, tuttavia, la formazione sposò la causa del rumore fragoroso contro la sterilità del funk meccanico. Il chitarrista Thurston Moore aveva già lanciato il suo grido di battaglia nel giugno 1981, organizzando un Noise Fest alle White Columns, una galleria d’arte a SoHo. Suddiviso in nove serate, il programma comprendeva i Sonic Youth nella loro prima versione, gli Avoidance Behavior di Lee Ranaldo (futuro chitarrista dei SY), Glenn Branca e gli Ut, longevo gruppo No Wave. «Fu un evento spartiacque, perché ebbe luogo in un momento in cui la No Wave era finita e non ci conoscevamo l’un l’altro» ricordava Moore nel 1985, intervistato da Forced Exposure. Non tutti, però, reagirono con tanto entusiasmo. Secondo Luc Sante, «buona parte del Noise Fest era arida, ideologica e priva di fascino. Si identificava pesantemente con un certo filone legato a Rhys Chatham e Glenn Branca, il giro del Kitchen: molto pretenzioso, accademico e per niente funky». Ciò nonostante, il ritorno della No Wave con Sonic Youth e Swans rappresentava il futuro immediato di New York. A metà degli anni ottanta, i gruppi più raffinati della città abbandonarono le influenze black e la prospettiva disco per attingere a un canone quasi esclusivamente bianco di rumoristi d’avanguardia.
 

Potrebbe interessarti: http://www.milanotoday.it/eventi/concerti/thurston-moore-milano.9-dicembre-2011
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30/11/11

Musica e memoria nell’era di YouTube


Osservando YouTube da un punto di vista prettamente musicale, sono due gli aspetti che più sorprendono di questo nuovo mezzo di (post-)trasmissione. Il primo è il fatto che YouTube sia diventato una miniera di apparizioni televisive e filmati rarissimi un tempo gelosamente conservati e scambiati dai fan più accaniti. Tramite gli annunci sulle ultime pagine di Goldmine o Record Collector e le comunicazioni via fanzine o posta, i fan barattavano o vendevano le videocassette, copiate e ricopiate tante volte che l’immagine di Elvis o Bowie era ormai così distorta da essere quasi irriconoscibile. Oggi è tutto su YouTube, a disposizione gratuita di chi abbia voglia di cliccare.
Se penso a quanto mi sarebbe tornato utile mentre scrivevo Post-punk 1978-1984 (terminato circa diciotto mesi prima del lancio di YouTube, nell’inverno del 2005), le emozioni sono contrastanti: una frustrazione retrospettiva bilanciata da uno strano senso di sollievo. Sarebbe stata una risorsa eccezionale, ma con quanta facilità avrei potuto perdermi negli innumerevoli clip dal vivo, nei vecchi video e negli spezzoni televisivi.
L’altra evoluzione davvero interessante nell’ottica musicale è il modo in cui i fan hanno trasformato ampie regioni di questo videoarchivio in un semplice catalogo di documenti audio, caricando brani accompagnati da figure astratte in movimento stile screen-saver o immagini fisse (in molti casi una semplice istantanea della copertina del disco o dell’etichetta, oppure una ripresa sgranata del disco che gira sul piatto). Interi album vengono messi su YouTube, con la stessa immagine generica e casuale a fare da sfondo a tutte le canzoni. La combinazione di video musicali e file audio ha fatto di YouTube una biblioteca pubblica del suono registrato (per quanto disorganizzata e caotica, con poche lacune ma piena di ripetizioni e «copie danneggiate»). Si può persino «prendere in prestito» senza restituire, utilizzando programmi come Dirpy per convertire i video in mp3.
YouTube è molto più facile da consultare della mia enorme e disordinata collezione di dischi. Mi è addirittura capitato di scaricare dal web album che avevo già per evitare la fatica di mettermi a cercare negli scatoloni. E chi se ne importa se la qualità sonora del cd e del vinile è decisamente superiore: chi ha fretta si accontenta dell’mp3 (nel mio caso di solito ho bisogno di controllare qualche dettaglio specifico, di fatto trattando la musica come banca dati e non più come esperienza sonora coinvolgente). Lo stesso YouTube è un esempio di questo genere di compromesso tra qualità e convenienza, tipico della cultura digitale. «La qualità audio-video è pessima» osserva Hilderbrand, sottolineando come la definizione che appare tollerabile nella piccola finestra riveli tutta la pochezza della bassa risoluzione in modalità «schermo». Ma proprio come gli ascoltatori hanno accettato il sound esile e «inferiore» dell’mp3 grazie alla compattezza e alla facilità di scambio, nessuno sembra preoccuparsi della fedeltà ridotta della visione via computer (per giunta proprio mentre la tecnologia si muove in direzione contraria con la tv in alta definizione, gli impianti home-theatre in surround 5.0, i film in 3D e via dicendo).
In compenso, l’archivio online ci offre una possibilità d’accesso, un volume e una varietà ampiamente superiori in termini di quantità, se non di qualità. Abbiamo inoltre a disposizione il controllo della durata sotto il video, il che ci consente di trascinare rapidamente la barra di scorrimento fino al momento chiave del filmato (o della canzone). YouTube è un contenitore di stralci fondato sulla frammentazione di narrazioni più lunghe (il programma, il film, l’album), ma questa funzione ci incoraggia, in quanto spettatori, a scindere gli spezzoni culturali in unità ancora più piccole, erodendo insidiosamente la nostra capacità di concentrazione e la nostra volontà di lasciare che le esperienze si dischiudano. Ma è internet in quanto tale a rendere più fragile e incostante il nostro senso della temporalità: piluccando i dati senza posa, saltelliamo nervosamente qui e là in cerca del prossimo zuccherino istantaneo. YouTube incoraggia questa deriva per mezzo della barra laterale, l’elenco dei video ritenuti – spesso in virtù di una logica contorta – affini a quello che stiamo guardando. È difficile non cedere a una modalità di osservazione distratta e distaccata, a metà tra il navigare e lo zapping (se non fosse che il canale è sempre lo stesso, YouTube, ormai diventato una regione dell’impero di Google, che lo acquistò nell’ottobre 2006). Questa fuga a zigzag non collega solo un artista all’altro e un genere all’altro, ma è anche un viaggio nel tempo: i video- prodotti delle varie epoche sono mescolati indiscriminatamente e inseriti in un reticolo di link incrociati.

Simon Reynolds, Retromania, p. 89-91

22/11/11

NIRVANA - Da Hip-hop-rock 1985-2008



Da Hip-hop-rock 1985-2008, Isbn Edizioni, p. 135

L’unica spiegazione possibile è che molta gente non si rendesse conto di essere così arrabbiata e alienata. Una volta ogni morte di papa, arriva un gruppo che calza lo zeitgeist come un guanto; oggi quel gruppo sono i Nirvana. Oscillante com’è tra rabbia e rassegnazione, piena di uno spirito rivoluzionario immediatamente tarpato da un’amara ironia, Smells Like Teen Spirit è la Anarchy in the uk dei nuovi ventenni. «Nevermind» è uno spaccato dell’inconscio collettivo di questa vuotissima generazione: furia che implode, idealismo che si blocca o si dissipa, perché nessuno dei due impulsi può trovare uno sbocco costruttivo.
La copertina dell’lp dice tutto con un’immagine: un bimbo nudo che nuota in acque uterine, attirato in superficie da un dollaro infilato su un amo. I Nirvana dicono: non farlo, bambino! Se lasci il tuo beatifico liquido per questo mondo corrotto, sarà il primo e peggiore errore della tua vita.
I Nirvana sono provvidenziali anche in un altro senso. Dopo un’annata di gruppi che ci hanno inondato di una sempre più blanda e canonica estasi simulata, è un vero piacere ascoltare qualcosa che possiede una minima pulsione viscerale, un’aggressiva bordata di riff taglienti ed emorragie vocali. La strategia messa in atto dalla Scena, evadere dalla realtà abbandonandosi a un etereo mondo dei sogni, aveva il suo perché; ma oggi la concretezza appare più adeguata della trascendenza. L’anno prossimo si aprirà un varco tra il nuovo hard rock/neo-punk e l’avanguardia sperimentale (Papa Sprain, Main, ecc.): la Scena scomparirà dentro questo crepaccio. Se non altro, i Manic Street Preachers si saranno rivelati i Giovanni Battista della situazione, aprendo la strada all’avvento dei Nirvana britannici.

18/11/11

I 50 dischi dei noughties secondo Simon Reynolds

  
Signor Hulot riprende, cogliendo l'occasione per commentarla, la classifica dei 50 dischi degli anni zero che Reynolds ha pubblicato tempo fa sul suo imperdibile Blissblog.

Allora, cosa colpisce in questa classifica? Per prima cosa, Reynolds salta a piè pari tutta la linea indie e post-indie che rappresenta invece la colonna portante delle charts di autorevoli siti e riviste quali Pitchfork, Stylus e Inrockuptibles. Quindi niente Strokes, White Stripes e Arcade Fire, nessuna forma di retromania e revival garage, blues o punk. Mancano anche i baluardi dell'Americana indie, da Sufjan Stevens ai Midlake, dai Grizzly Bear agli Shins. Non ci sono nemmeno i paladini del nuovo rock evoluto ed enciclopedico, alla Tv On the Radio o i raffinati rivisitatori della tradizione come i Wilco. Out anche le trovate etnico-danzanti di M.I.A., il post rock fuori tempo massimo dei Sigur Rós (Reynolds se lo può permettere, dato che com'è noto di post-rock è stato il primo a parlare) o mostri sacri un po' ibernati quali Bjork e Beck.
Reynolds prova invece a fare una lista davvero non scontata, con alcune inclusioni che mettono tutti d'accordo (Discovery dei Daft Punk, i Radiohead di Kid A, The Blueprint di Jay Z), alcuni inserimenti di giovani artisti capaci di sposare qualità e trend (Joanna Newsom, Dirty Projectors, Arctic Monkeys e Vampire Weekend), personaggi di culto mai abbastanza celebrati (l'immenso J Dilla, le geniali electro-dadaiste Blectum from Blechdom, con ben due dischi a testa). Ci sono poi presenze che dimostrano l'assoluta mancanza di pregiudizi di SR, come quelle del progetto afrobeateggiante di Damon Albarn The Good The Bad and The Queen, di Kanye West e di Lily Allen. Poi, e qua viene l'interessante, ci sono un po' di scelte nette dettate dal gusto e dalla competenza: parecchia hauntology, con Belbury Poly, Focus Group, Moon Wiring Club & co. Un po' di esponenti dell'hardcore continuum, dal golden boy del grime Dizzee Rascal a Burial e Zomby. Sugli scudi Ariel Pink, cioè il profeta hypnagogico ante litteram, assieme ai suoi sodali inneggianti, gli Animal Collective, che stanno fuori dalle prime posizioni, ma considerando anche Panda Bear e il disco Danse Manatee, uscito col nome dei singoli membri, arrivano a tre presenze in classifica. E infine un paio di scommesse su gruppi che continuano a rimanere molto di nicchia, ma che Reynolds sostiene senza paura, come i dirompenti Micachu & The Shapes (da ascoltare anche l'incredibile disco di quest'anno con la London Sinfonietta) e i Black Moth Super Rainbow. Insomma, indipendenza di giudizio e ampiezza di vedute, cosa chiedere di più a un critico?
PS: Una spiegazione per The Streets in una "classe a sè stante": Reynolds si era dimenticato di inserirlo, forse influenzato dal netto declino qualitativo seguito ai primi due dischi di Mike Skinner, ma la statura di Original Pirate Material è tale da meritare una presenza incontestabile.  

1 Ariel Pink's Haunted Graffiti - The Doldrums
2 Dizzee Rascal - Boy In Da Corner
3 Vampire Weekend - s/t
4 The Focus Group - Hey Let Loose Your Love
5 Daft Punk - Discovery
6 Various Artists - Run the Road
7 Ariel Pink's Haunted Graffiti - Worn Copy
8 Belbury Poly - The Willows
9 The Good The Bad and the Queen - s/t
10  Scritti Politti - White Bread Black Beer
11 Radiohead - Kid A
12 Mordant Music - Dead Air
13 The Advisory Circle - Other Channels
14 Black Moth Super Rainbow -- Dandelion Gum
15 Burial- s/t
16 Micachu and the Shapes -- Jewellery
17 Jay-Z - The Blueprint
18 Moon Wiring Club - An Audience of Art Deco Eyes
19 Arctic Monkeys - Whatever People Say I Am, That's What I'm Not
20 Blectum from Blechdom - Haus De Snaus
21 Panda Bear - Person Pitch
22 Kanye West - The College Dropout
23  Isolee - Rest
24  The Avalanches - Since I Left You
25  Joanna Newsom - Ys
26  Hot Chip - Coming On Strong
27  The Dirty Projectors -- Bitte Orca
28  Terror Danjah - Gremlinz
29  J Dilla - The Shining
30 Lady Sovereign - Public Warning
31 Zomby - s/t
32 Portishead - Third
33  Villalobos - Alcachofa
34  J Dilla - Donuts
35  Blectum from Blechdom - The Messy Jesse Fiesta
36  Dolphins Into the Future - Mountains Saturnus
37  Animal Collective - Here Comes the Indian
38  Pulp - We Love Life
39  Cannibal Ox - Cold Vein
40  Sally Shapiro - Disco Romance
41  Clipse - Lord Willin'
42  Lily Allen - Alright Still
43  Kanye West - 808s & Heartbreak
44  High Places - s/t
45  Infinite Livez - Bush Meat
46  Pitman - It Takes a Nation of Tossers
47  Juana Molina - Son
48  Gang Gang Dance - Saint Dymphna
49  Avey Tare, Panda Bear & Geologist - Danse Manatee
50  Boards of Canada - Geogaddi



PREMIO SPECIALE "IN UNA CLASSE A SE STANTE"
The Streets - Original Pirate Material

15/11/11

Elogio di Giorgio Moroder

In effetti Moroder manca, in Retromania. Reynolds però l'ha citato nell'intervista che gli abbiamo fatto, e poi ci ha pensato Signor Hulot a scriverne con grande competenza, con un paio di video niente male presi da YouTube.

***
Il baffuto di Ortisei, oltre ad aver praticamente inventato l'electro-pop con la sua versione sintetica della musica disco (la pietra miliare è naturalmente la multiorgasmica I Feel Love cantata da Donna Summer), ha lanciato uno dei pochi generi che vedono un apporto originale dell'Italia alla musica dance e pop, cioè l'Euro-Disco, con la successiva incarnazione Italo, ovviamente. Reynolds, che di Moroder parla in qualche passaggio di Energy Flash, lo colloca in questo senso tra i precursori della House di Chicago. Poi, non contento, il genio tirolese ha compiuto formidabili scorribande a hollywood, incidendo a forza il suo nome in molti momenti ormai infiltrati nell'immaginario collettivo: basta pensare a Richard Gere in completo Armani che corre per le strade di LA sulla sua spider nera, all'inizio di American Gigolo, con "Call Me" dei Blondie (prodotta e in parte scritta da Moroder) che accompagna i titoli di testa; oppure a un assoluto gioiello di esagerazione hollywoodiana come "Take My Breath Away" suonata dai Berlin: piena estetica ottanta quella di Top Gun, ma quantomai attualissima con le riattivazioni hypnagogiche e Chill Wave del verbo sintetico e delle visioni eighties.
Per descrivere la sua musica mi viene da pensare a dei Kraftwerk cafoni e ipersessuati, con un immaginario che sta tra Scarface di De Palma e l'Ispettore Derrick, una perfetta fusione di sensi e suoni artificiali, camicie con colletti enormi e collane d'oro in mezzo a cristalline melodie elettroniche, come suggerito dall'intreccio di vocoderismi, quattro quarti disco, scale sintetizzate, melodie tirolesi e vocine maliziose della esageratissima "From Here to Eternity" del 1977, talmente piantata nel suo tempo da poter essere un pezzo di due giorni fa. O penso all'altro gioiello del periodo, quella "E=MC2" (con tanto di "Thank You, Albert" finale) che pare un'anticipazione dei Daft Punk di Discovery. Certo, il nostro, da buon artista totale, non ha mai rifiutato di confrontarsi con momenti di terrificante kitsch nazional-popolare (vi dice niente "Notti magiche, inseguendo un gol..."?), ma questo contribuisce in un certo senso alla sua statura di icona culturale assoluta. E fuori da ogni retorica vintage, il tema di Fuga di mezzanotte è un capolavoro inarrivabile del pop elettronico e della musica da film, e basterebbe questo per far rimanere nella storia (nella leggenda c'è già) il signor Giorgio Moroder.





11/11/11

Isbn intervista Simon Reynolds # Seconda parte

 

La seconda parte dell'intervista che abbiamo fatto a Simon Reynolds.
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Quale sarà il prossimo passo del “riciclo musicale” nella nostra cultura?

Non lo so. La gente parla degli anni novanta come della next big zone, ma cosa ci troveranno da copiare, mi chiedo? Proprio in questo periodo il Goth, la Cold Wave e la Electronic Body Music dei tardi anni ottanta sembrano fonti piuttosto calde. Forse il “baggy” sound di Manchester (Happy Monday, Stone Roses) verrà riscoperto. 

Recentemente è stata ripubblicata la kindle version del tuo primo libro, Blissed out. È buffo scoprire che già nell’87 parlavi di una specie di legame con il passato (continue riedizioni e revisioni, “un’altra biografia di Bob Dylan” e via dicendo). Quali sono le differenze fondamentali tra la “nuova” retromania e le “vecchie” retromanie? 

La differenza principale sta nella scala, nell’intensità e nella dimensione del problema, che ha a che fare con la componente della cultura digitale della nostra epoca e con il dilagante fenomeno dell’archivismo della memoria pop su internet. È lì che si crea la “mania”.

Ovviamente il problema non è nato dal nulla, è andato crescendo per anni, anzi per decenni. Vedo un’analogia con il film su Al Gore Una scomoda verità. La gente, compreso Gore stesso, ha parlato del surriscaldamento globale e delle sue conseguenze per anni, per decenni. Ma questo non ha impedito al film di essere un contributo vitale e tempestivo al riguardo. Né significa che Gore avrebbe dovuto star zitto sulla questione, dopo essersi espresso abbondantemente al riguardo nel film. Allo stesso modo, il rétro ha una storia e un’evoluzione che comincia decenni fa, ma non ho dubbi sul fatto che il fenomeno sia aumentato drasticamente negli ultimi dieci o dodici anni, e che sia qualcosa di cui ci dobbiamo occupare. Bisogna farsi delle domande! 

Nel regno iper-statico della cultura digitale – in cui il tempo è orizzontale e quasi ogni suono creato nel passato può essere facilmente riascoltato e la possibilità del cambiamento lineare sta svanendo – ha ancora un senso l’idea del potere trasformativo della musica? È ancora possibile essere sorpresi da qualcosa? 

Immagino che possiamo solo scoprire se qualcuno fa musica trasformativa, e capire se possiamo reagire alla sua sfida. Riguardo all’essere sorpresi, naturalmente spero di sì. Penso che potrebbe ancora succedermi di essere sorpreso. Sono pronto, volenteroso e in desideroso di esserlo! 

L’immenso archivio di YouTube è un’enorme risorsa per gli ascoltatori. Scaricare – legalmente o meno – ci permette di avere molta più musica di quella che possiamo realisticamente ascoltare. Si possono ascoltare file mp3 di tutti i tipi, provenienti da tutto il mondo. Tutta questa musica potrebbe costituire un problema per la nostra limitata capacità di ascolto? Stiamo diventando musicalmente onnivori ma allo stesso tempo anche un po’ superficiali? 

Sì. Questo è uno degli argomenti che tratto di più nel libro. Una delle mie preoccupazioni è l’assottigliarsi dell’esperienza musicale, una sorta di fruizione satura, distratta e dispersiva. 

Cosa pensi della musica italiana? C’è qualche gruppo o cantante italiano che ti piace, contemporaneo o dei decenni scorsi? 

Non so un granché della scena contemporanea, però ho visto una band di grande effetto all’Arca Puccini festival a Pistoia, si chiama Topsy the Great, è rock strumentale high energy intenso, tra l’hardcore, il metal e il math rock, con la batteria come strumento principale.

Dagli scorsi decenni, mi è piaciuto un po’ di progressive rock italiano che ho sentito e ovviamente giganti del soundtrack come Morricone e Goblin. E anche mostri della disco music come Moroder e Daniele Baldelli. Ho sentito alcuni bravi artisti techno italiani come Lory D e Leo Anibaldi. Ah, poi sono un grande fan dei vostri compositori di avanguardia come Nono, Berio e Maderna. 

Il libro ha una forte connotazione autobiografica. È pieno di ricordi e storie personali: la caccia alle mappe degli autobus che ha assorbito tuo figlio e te a New York; strani incontri con maniaci del rétro durante gli anni universitari, la sensazione straniante di avere un figlio cresciuto in America con cui non puoi condividere l’atmosfera culturale in cui sei cresciuto tu. Retromania è un ritratto del critico musicale di mezz’età? 

Tutti i miei libri sono personali, nel senso che non esisterebbero senza la mia passione e ossessivo interesse per la scena musicale e senza li mio coinvolgimento sul campo, come per i rave negli anni novanta o per il post-punk quand’ero ragazzo. Ma sicuramente in Retromania c’è più memoria emotiva e più aneddotica, pesca dalla mia storia personale più dei libri precedenti ed è inseparabile dal mio punto di vista, quello di chi c’era durante tutti i periodi di cui parlo. Perciò in quel senso è il libro di un uomo di mezza età. Credo che le mie considerazioni siano accessibili a lettori di tutte le età, ma non tutti le sentirebbero con la stessa di chi ha trenta, quaranta, cinquant’anni oggi: quelli che hanno vissuto negli anni sessanta o nell’epoca del post-punk, o in quella dei techno-rave dei novanta. Il libro ha un elemento immediato ed esperienziale che aggiunge un carico emozionale a Retromania sia per chi scrive che per chi legge.
 

Puoi anticiparci qualcosa sul tuo prossimo lavoro? Quale sarà l’argomento del libro? 

Non dico nulla per scaramanzia perché il libro non è ancora stato ufficialmente proposto. Ma se il libro si farà, sarà un grande passo per me: parla sempre di musica, ma esplora aspetti che non ho mai esplorato prima. La mia speranza per i prossimi libri è riuscire a fare cose che mi mettano alla prova e mi portino in direzioni diverse ogni volta.


08/11/11

Isbn intervista Simon Reynolds # Prima parte


Abbiamo fatto qualche domanda a Simon Reynolds a proposito di Retromania, delle tesi contenute nel suo libro e delle sue preferenze musicali.
***
Qual è stato l’evento – se ce n’è stato uno – che ti ha fatto decidere di scrivere un libro come Retromania?
La scintilla ha iniziato a scattarmi dentro durante gli anni 2000: la sensazione che la musica pop fosse ormai del tutto succube di un’attrazione fatale nei confronti della sua stessa storia, accumulata nel corso degli anni. Questa tendenza poteva essere arginata? mi chiedevo. Oppure ci stavamo inesorabilmente dirigendo verso una sorta di buco nero del pop? Non è facile segnalare il momento della svolta, anche se l’album dei Beatles Love – un remix mash-up dei più grandi successi del gruppo, realizzato da George Martin e suo figlio Giles – mi è sembrato l’esempio emblematico del nostro desiderio collettivo di riconsumare e rivisitare senza sosta gli anni d’oro del rock.

In Retromania ci sono tesi forti e originali – in alcuni casi impopolari – molta sociologia e filosofia; d’altra parte, sembra esserci meno storia e critica musicale rispetto ai tuoi ultimi libri. Come pensi che i lettori italiani reagiranno a tutto ciò?
Credo ci sia, come sempre, tanta storia e critica musicale – in un certo senso il libro è una specie di “storia del presente”, del significato del pop e del rock nei primi undici anni del Ventunesimo secolo. Di certo c’è molta critica musicale, solo che si tratta quasi sempre di critica dai toni negativi. Di sicuro è il mio primo libro che non sia stato scritto sotto la spinta principale dell’entusiasmo. E c’è anche meno descrizione diretta e meno evocazione della musica intesa come suono. Stando a quelle che sono state le reazioni negli Usa e in Inghilterra, credo che i fan e i lettori italiani avranno modo di divertirsi molto. Per me essere uno scrittore di musica significa ragionare in termini di odio/amore, e questa volta il concetto di base del libro tende maggiormente verso l’odio. Ma solo perché amo davvero tanto la musica e ho sempre grandi aspettative in proposito! In realtà uno degli obiettivi del libro è l’erosione della mentalità dell’odio/amore, quella che io chiamo gusto dell’o/o. È stata rimpiazzata da una sorta di debole eclettismo, la modalità shuffle tipica dell’iPod per cui ci piacciono un sacco di cose ma nessuna ci provoca una vera ossessione o fanatismo.
Il nucleo centrale del tuo libro è il fatto che la nostra era musicale – così come la cultura pop – sia caratterizzata dalla costante e continua esplorazione del passato. Negli ultimi 15 anni, più o meno, non ci sono stati artisti o band in grado di realizzare qualcosa di veramente nuovo. Ma non pensi che gente come Arcade Fire, Arctic Monkeys, Bon Iver o Kanye West stiano costruendo un suono nuovo e innovativo, senza guardare tanto al passato?
Non ho detto che negli ultimi 15 anni non ci sono state band che abbiano fatto qualcosa di innovativo. Ma, di sicuro, nel Ventunesimo secolo non ci sono stati movimenti musicali paragonabili, in termini di rilevanza o di effettiva novità, al rap o al rave, al punk o al metal. Molte band attive al giorno d’oggi o contribuiscono a una lunga e stabile tradizione, alla quale aggiungono piccole e impercettibili modifiche, oppure mettono insieme due o più tradizioni esistenti, per crearne una relativamente nuova. I Vampire Weekend ne sono un buon esempio. Così come molti gruppi dell’area dubstep. Per quel che riguarda gli esempi specifici:
Gli Arcade Fire, per me, suonano come la “grande musica” degli anni 80, come poi è stata definita – l’epico postpunk-da-stadio dei Waterboys, Echo & the Bunnymen, e così via. Ammetto che si tratta di un gruppo di una certa importanza, ma non riesco a capire cosa renda la loro musica davvero innovativa.
Gli Arctic Monkeys sono una grande band, il loro primo disco è stato uno dei miei preferiti del decennio. Ma loro agiscono in una zona ben definita, sia dal punto di vista dei testi che della musica: la tradizione del pop-rock inglese che include Smiths, Pulp, Libertines, e così via. Nei loro dischi c’è poco che non sia stato già realizzato, da un punto di vista musicale, negli anni 80.
Bon Iver: non credo ci sia nulla nei suoi dischi che non sia stato già fatto negli anni 80, forse anche nei 70. Il suo ultimo disco è apertamente in debito con il soft-rock Americano dei 70-80.
Kanye West ha fatto della grande musica, ma la maggior parte dei suoi lavori si basa sul sampling. Spesso si tratta di grossi pezzi di musica già esistente. Qualche volta è fatto in modo particolarmente brillante (“Through the Fire”, basato su “Through the Wire” di Chakha Khan) ma qualche altra volta non tanto (le canzoni che si basano in modo più evidente sulle tracce di Daft Punk e Curtis Mayfield).  La maggior parte delle innovazioni di Kanye sono nelle liriche e nel flow, e anche nel suo “personaggio” e nella sperimentazione del gestire la celebrità attraverso I media digitali, come per esempio twitter.
Qual è il gruppo retromaniaco contemporaneo che ami ascoltare? In altre parole, chi pensi realizzi al meglio la musica senza fare nulla di nuovo?
Ovviamente adoro Ariel Pink, e in un certo senso è lui l’eroe di Retromania. E insieme a lui ci sono un sacco di altri gruppi che mi piacciono che non stanno realmente aggiungendo nulla di nuovo al linguaggio musicale già esistente. Ma sono ugualmente molto bravi e divertenti da ascoltare. Qualche tempo fa mi è piaciuto l’album Kaputt di Destroyer, che è basato in modo molto consapevole e meticoloso sul sound patinato del pop di metà anni 80, come quello dei Prefab Sprout, dei Blue Nile, Roxy Music e Avalon. Non so perché proprio questo disco, nella sua grande produzione, suoni così vicino a quell’era musicale specifica, ma provo un piacere particolare nell’ascoltarlo, perché ai tempi ho amato sia i Prefab che i Blue Nile. (CONTINUA...)

31/10/11

Economia e politica del sample #1



Nuovo post del Signor Hulot, questa volta alle prese con il tema dei sample e della lettura che ne fa Simon Reynolds in Retromania:

Il tema più esplicitamente politico del libro viene fuori proprio nell'ultima parte di Retromania, con la critica del concetto di sample (o meglio, la critica dell'elogio indiscriminato del sample come momento di liberazione dalle strettoie della musica suonata) in relazione alla gentrification. Il termine viene utilizzato in ambito sociologico e urbanistico per descrivere un fenomeno molto specifico: i bianchi arrivano nelle zone residenziali in cui vivevano i neri e questi vanno via, come nel gioco dei quartieri delle grandi città che diventano a turno zone bene o zone male a seconda che ci vivano bianchi (o la borghesia nera) oppure neri e working class. In generale, è un fenomeno per cui una classe più abbiente acquisisce beni di una classe meno abbiente a basso prezzo in zone squalificate, per poi riqualificarle facendo salire il prezzo (e allontanando in questo modo gli abitanti originari). Specchio perfetto di questo fenomeno è un certo tipo di trip-hop che, dopo essere stato la musica delle crew di Bristol, è diventato poi qualcosa di pericolosamente simile a una musica lounge per gli anni novanta, cocktail music da ascoltare in sottofondo mentre si prende un mojito (un po' come l'acid jazz), magari poco prima di andare a ballare in spiaggia. Da musica da strada a musica per party dei ragazzini bene. Questa deriva del trip-hop (SR lo dice anche in Energy flash) è un perfetto caso di gentrification, in cui il dj o il musicista (spesso bianco o comunque benestante) si riappropria, sia pure per un atto di amore, dei beat dell'hip-hop nero per utilizzarli all'interno di un contesto diverso.
Per dirla in modo brutale, è così liberatorio o rivoluzionario che un ragazzino che ha ricevuto un sampler in regalo per Natale campioni un beat suonato in carne ossa e sudore da un session man sottopagato negli anni settanta? Reynolds lavora attorno a questa domanda senza arrivare a una risposta definitiva. La questione fa problema, non porta soluzioni troppo facili. Certo è che dopo anni di retorica "liberatoria", secondo in cui il sample era la rivincita dell'underdog, il sottoproletario musicale privo di qualsiasi formazione o competenza tecnica che, grazie al piatto da dj, a un sampler o a un sintetizzatore, riesce ad appropriarsi della musica suonata da altri per usarla come elemento combinatorio all'interno della sua creazione, la questione sembra ribaltarsi. I veri "proletari" sembrano essere i musicisti che hanno suonato realmente la musica, mentre sono gli utilizzatori dei sample ad essere dalla parte del "potere" e a prelevare con un solo click il frutto del lavoro altrui. Il linguaggio che Reynolds utilizza per parlare di questo fenomeno è provocatoriamente asettico e clinico: "La «sostituzione sonora» fa pensare alla sostituzione artificiale di una parte del corpo, e in effetti la precisione e la sterilità della procedura [di sampling] ricordano la più avanzata chirurgia dei trapianti di organo, dei tessuti artificiali e delle protesi". (pag. 327).
Questa asetticità emerge bene in Safe From Harm, dei Massive Attack (certo un esempio di trip-hop di altissimo livello), in cui si usa un frammento di Stratus di Billy Cobham, spogliato dalle digressioni jazz, per farlo diventare puro concentrato ritmico. Il detournement del battito originale diventa, allo stesso tempo, un omaggio all'originale, ma anche un tradimento dell'intenzione del musicista. Ma ci potrebbero essere infiniti altri esempi, penso solo all'uso del funk rock di Release the beast dei Breakwater da parte dei Daft Punk (in Robot Rock): perde in groove e acquista potenza mutante. Che in questo modo il sample dia una nuova vita all'originale o che sia un modo per imbalsamarlo e sterilizzarlo, è una questione che rimane aperta. 


Breakwater - Release the Beast

 


Daft Punk - Robot Rock

26/10/11

Simon Reynolds intervista David Byrne

 Foto da Wired.

Una parte dell'intervista di Simon Reynolds a David Byrne, contenuta in Totally Wired (Isbn Edizioni, 2010).

Quando hai iniziato a interessarti alla musica?

Probabilmente tutti a un certo punto si rendono conto che esiste altro oltre alla musica che ascoltano i tuoi genitori e la canzoncina di Thomas the Tank Engine – «Ooh, quella musica mi sta parlando». A me è successo a metà degli anni sessanta, musicalmente un periodo davvero aperto. Quindi non solo sentivo cose che sembravano dirette a me e ai miei amici, ma c’era di tutto. Tutto sembrava possibile. Sembrava che si potesse tirar fuori musica da qualunque cosa, fintanto che si aderiva a una vaga struttura di canzone pop, quindi c’era una selvaggia sensazione di libertà. Fu quello ad attirare la mia attenzione.

Da bambino non facesti i tuoi personali esperimenti di musica concreta?

Sì, mi ispiravo alle cose di cui avevo sentito parlare, fossero Cage o Stockhausen o i Beatles o chissà cosa. Mio padre aveva un piccolo registratore a bobine, così, a sedici anni o giù di lì, registravo delle cose, poi prendevo i nastri e li tagliavo, rimettevo in ordine i pezzi e li ribaltavo. Era la cosa più splendida e folle che avessi mai sentito! In quello stesso periodo mio padre mi aiutò a modificare il registratore così che potessi fare una sorta di multitraccia, suono su suono. Potevo registrare una traccia in maniera molto primitiva, ascoltarla e suonarci insieme, e quello sarebbe stato registrato sull’altro canale dello stereo. Non si poteva mai mixare ma si potevano sovrapporre i suoni. La cosa mi affascinò totalmente e cominciai a registrare le canzoni pop degli altri in quel modo.

La prima ondata di gruppi punk di New York con base attorno al cbgb’s e Max’s Kansas City era decisamente imbevuta del romanticismo rock e del bisogno di vivere al limite. Patti Smith e i Television uscivano dai sessanta, e prima ancora dai Beat – avevano l’aspetto e vivevano da bohémien. Mentre i Talking Heads avevano un aspetto più ordinato e un approccio più distaccato.

Alcuni dei gruppi stavano davvero continuando gli archetipi del rock’n’roll, sia nei suoni che nelle attitudini ribelli. Le pose da palco e i fuochi d’artificio chitarristici. Pensavo «Così non si dice niente di nuovo. è una versione più moscia dei Rolling Stones». I gesti non venivano pensati, erano solo ereditati. Come a dire «Questa è l’attitudine che si accompagna al territorio dei gruppi rock, i vestiti e le pose che devi fare tuoi». Pensavo «Vediamo se si può buttare via tutto questo, ripartire dal via e vedere cosa succede». Che significava salire sul palco con i vestiti che mettevi per strada e cantare senza posa, in una sorta di maniera non romantica ma appassionata. Pensai che non avere un’immagine fosse una maniera per tornare agli inizi. Dopo un po’ compresi che non avere nessuna immagine, ovviamente, significa avere un’immagine. Non puoi scapparne. Non appena metti piede sul palco, si entra nell’artificio. Così pensai «Devo trovare qualcos’altro su cui basarmi che non sia un cliché».

20/10/11

Sempre sul Synth Pop



Una raccolta delle migliori canzoni (e video) sul tema Synth Pop:

Darkstar: Gold




The XX - Islands



School of Seven Bells - Half Asleep



Fischerspooner - Emerge



M83 - We Own the Sky

11/10/11

Il Synth Pop



Signor Hulot sul Synth Pop:

Tra i vari frammenti musicali ritornati - in modo ricombinato, contaminato o puro - negli ultimi tempi, c'è quella porzione di passato che corrisponde agli anni ottanta. Da feste revival in tema, in cui orde di ragazzini cantano a squarciagola le canzoni di Cindy Lauper o degli Eurythmics, a mucisiti che omaggiano in modo diretto il decennio sintetico per eccellenza, riprendendo suoni e timbri inconfondibili: basta guardarsi un po' attorno per riascoltare e rivedere cose che avremmo pensato morte e sepolte da tempo. Drum machine Roland TR-808 in gran spolvero, sparsi battiti elettronici, sequencer rudimentali, tastiere Casio comprate su eBay; e poi sneakers alte e colorate, felpe con le spalle imbottite, loghi fluorescenti, quattordicenni che non sarebbero stonate nei video di Madonna del periodo. Potremmo collegare a questo anche il ritorno del brand Fiorucci negli scaffali della grande distribuzione e l'abbondanza di colori primari spalmati sulle magliette e sui cappellini da baseball. Su un altro versante, riappaiono i ragazzini magrissimi con i jeans tipo seconda pelle, i capelli lunghi sulle spalle e le magliette dei Metallica (epoca Kill'em All) e degli Anthrax (perché gli ottanta erano anche gli anni del thrash, non dimentichiamolo).
Lo stesso Reynolds, tracciando una continuità filologica con la scena Electroclash dei nineties (ma le provocazioni concettuali e coreografiche di Fischerspooner erano altra cosa) dedica alcuni passaggi di Retromania al ritorno del pop elettronico e sintetico che, con personaggi come Human League, Yazoo, Visage, Depeche Mode e compagnia aveva fatto scoprire il cuore in fondo ai battiti elettronici nella prima metà degli anni ottanta. E il synth pop è stato soprattutto questo, la versione orecchiabile del connubio uomo-macchina di impronta kraftwerkiana, melodie orecchiabili e calori romantici che duettano con la freddezza dei suoni elettronici e con la spiccata artificiosità del look e delle situazioni. Ecco allora, tra i segnali della rinascita (anzi, dell'"infinito revival", come viene definito in Retromania), il pastiche madonniano postmoderno di Lady Gaga, le perle pop di La Roux e Little Boots (che avrebbero scalato qualsiasi classifica attorno all'84), le tessiture sintetiche sognanti e nebbiose – con ampie sfocature shoegaze - di School of the Seven Bells e M83 o, per spostarci in Francia, le scatenate performance di Yelle con il suo ciuffo asimmetrico e la commistione synth-disco. Per non parlare di muscisti come gli XX che partono dal pop sintetico per declinarlo in deliziose tinte dark quasi lynchiane. Il solito geniale Reynolds fissa in modo folgorante questa strana rinascita in poche righe di una delle sue retrologie: "2010/Ottobre, a ventisette anni dalla fine del fenomeno, Elly Jackson dei La Roux si accorge che il synthpop è «morto e sepolto. Lo adoravo ma adesso mi annoia. Non voglio più fare synth per il resto della mia cazzo di vita. Se vedo qualcos'altro a tema anni ottanta, esplodo» >>>> 2010/Ottobre: i Darkstar, nuova promessa post-dubstep, pubblicano una cover di Gold del 1982, un lato B degli Human League".

La Roux - In For The Kill

06/10/11

Zappa, postmodernismo rock



Un altro esempio di postmodernismo rock ante litteram è Frank Zappa, la cui parabola creativa rispecchiava da vicino (e a tratti sbeffeggiava) quella dei Beatles, con particolare riferimento al suo debole per la sperimentazione in studio con il tape editing. Uscito alla fine del 1968 qualche settimana dopo il «White Album», «Cruising with Ruben & The Jets» era un album-parodia del doo-wop, con Zappa e le Mothers of Invention nei panni di un immaginario gruppo vocale anni cinquanta sulla falsariga di formazioni come Little Caesar & The Romans e i Flamingos. Pur essendo un affettuoso esercizio di nostalgia dei suoni pop della sua giovinezza, «Cruising with Ruben & The Jets» era anche, per citare Zappa, la dissezione «scientifica» di uno stile d’annata tesa a scomporlo impassibilmente nei suoi «motivi stereotipati» per poi ricostruirli in «meticolosi conglomerati di cliché archetipici». L’emozione pop era esibita come insieme di tecniche standardizzate, meccanismi per manipolare i sentimenti dell’ascoltatore.

Simon Reynolds, Retromania, p. 209


04/10/11

Retromania, un tentativo di recensione

© Haroon Mirza, Evolution of a revolution (2011)

Signor Hulot ha scritto sul suo blog un "tentativo di recensione" del libro di Simon Reynolds

Retromania è un libro sul passato e il presente del pop, con una domanda sullo sfondo: cioè se un futuro per il pop sia ancora possibile. La musica pop ha fino ad ora descritto un certo rapporto con il presente e con le possibili trasformazioni affettive e psichiche di una categoria che potremmo identificare con l'adolescenza (reale e immaginaria) e con lo stato di stupore e novità che si vive quando si scopre qualcosa che parla –attraverso suoni e rumori – al nostro modo di stare al mondo. Elvis, Dylan, i Beatles, i Velvet, i Kraftwerk, il punk, il krautrock, il post-punk, la techno hanno aperto fratture nella linearità del tempo e, ogni volta – dopo di loro – le cose non sono più state le stesse: sono stati eventi che hanno impresso nuove curvature al presente. Nel momento in cui, all'apparenza, tutto è stato già detto, la storia del pop come razzo lanciato verso il futuro sembra però fermarsi e la spinta all'innovazione, la vocazione profondamente modernista del pop e del rock, potrebbero essere solo un ricordo da evocare dalle nebbie del passato.
Quella che è sembrata una grande occasione, vale a dire la possibilità di accedere in tempo reale, attraverso la rete, all'immenso archivio della musica prodotta negli scorsi decenni, sembra ora congelare il tempo del pop in una specie di eterno rimbalzo tra presente e passato. Le coordinate dell'oggi musicale sono inscritte nella rete di continui rimandi – tra citazioni, omaggi, pastiche, parodie, adorazioni, ossessioni – di epoche passate. Il musicista, sempre più consapevole della tradizione che lo ha generato, diventa un curatore, un selezionatore, un commentatore che replica, campiona e mixa pezzi di musica di un tempo trascorso. Si tratta di un atto d'amore, certo, ma un amore che può diventare cannibalico, distruggendo l'oggetto della sua passione, generando piccole paranoie e manie, portando il fan e il musicista a soffermarsi in modo quasi feticista su certi suoni, certe ere, certi ritmi, per riportarli in vita attraverso procedimenti che hanno a che fare con l'occultismo e la psicosi non meno che con la tecnologia.
Reynolds esplora questa paradossale temporalità retroattiva, la retromania che fa correre in avanti con gli occhi fissi nel retrovisore e con il rischio di andare a sbattere contro il muro della stasi e dell'immobilità (o contro lo schermo del pc, incapaci di guardare cosa succede fuori dalla finestra). Rievocando le retromanie che già hanno abitato come fantasmi il corpo del pop (dal Northern Soul alla rinascita mod, dal revival rock 'n' roll all'elettronica del dopoguerra, dal citazionismo di Stereolab e LCD Soundsystem all'elettronica fantasmatica di Boards of Canada e Broadcast, dalla fusione sampledelica di DJ Shadow alla furia arty dei Sonic Youth), Reynolds porta il lettore in un lungo viaggio su e giù per lo spazio-tempo, guidato dalla passione del fan e dal rigore dello storico sociale. E di fronte al business della memoria (gruppi che calcano i palchi come morti viventi, sontuosi cofanetti che rimpinguano le casse delle case discografiche) e a sottili operazioni retromaniache (il re-enactement come operazione estetica, i fantasmi di futuri mai realizzati della hauntology), Reynolds sembra porre una domanda radicale. È ancora possibile una musica che sia in grado di parlare all'urgenza del qui e ora o siamo ormai condannati a un turismo musicale virtuale, senza il brivido della scoperta e della novità, guidati solo dalla nostra capacità di orientarci nel grande archivio del passato?

28/09/11

Ossessione per l'antichità


Da Retromania, pag. 13:

La storia ha conosciuto altre epoche ossessionate dall’antichità – dalla venerazione rinascimentale per il classicismo romano e greco al medievalismo del movimento dark –, ma non è mai esistita una società umana così fissata con i prodotti culturali del passato immediato. Ecco cosa distingue il rétro dall’antiquariato e dalla storia: una fascinazione per le mode, le manie passeggere, i suoni e le star abbastanza vicini nel tempo da poterli ricordare. L’oggetto di questa ossessione si configura in maniera sempre più netta come la cultura pop che abbiamo già vissuto consapevolmente, al contrario di ciò che ascoltavamo acriticamente da bambini.
Questo genere di retromania è diventato una sorta di forza dominante nella nostra cultura, tanto che oggi abbiamo la sensazione di aver raggiunto un punto di svolta. La nostalgia blocca la nostra capacità culturale di guardare avanti, oppure siamo nostalgici perché la cultura ha smesso di progredire, costringendoci a concentrare l’attenzione su epoche più movimentate e dinamiche? Cosa succederà quando saremo a corto di passato? Siamo destinati a una sorta di catastrofe cultural-ecologica, una volta esaurito l’orizzonte della storia pop? E di tutte le novità degli ultimi dieci anni, quali andranno ad alimentare i capricci nostalgici di domani?

23/09/11

I R.E.M. per Simon Reynolds



I R.E.M.: malinconicamente, evocavano visioni astratte di nuove frontiere e nuovi inizi per l’America.
da Post-punk, Isbn Edizioni, pag. 630

21/09/11

Since I Left You - The Avalanches



Il picco di questa forma di «nostalgia senza nostalgia» anestetica arrivò all’inizio del nuovo millennio con la moda dei mash-up, i remix pirata che cucivano insieme due o più successi pop. Basato sulle stesse tecniche di sampling utilizzate da tutta la musica descritta in questo capitolo, il fenomeno mash-up (noto anche come «bastard pop») condivideva alcune radici con la hauntology: si pensi ai mosaici di sample realizzati negli anni novanta da Luke Vibert (alias Wagon Christ), Chemical Brothers e Bentley Rhythm Ace, dj/produttori inglesi dediti al crate digging e innamorati della production music. Virtuoso dell’alchimia sampladelica che trasformava in oro il cheese più ammuffito, Vibert preferiva campionare «i dischi di merda». E tuttavia fu superato dagli australiani Avalanches, che dopo aver rastrellato le vendite di beneficenza di Sydney per un anno costruirono il mirabile «Since I Left You» del 2001 con oltre mille sample tratti da seicento album scontati.

Simon Reynolds da Retromania.

20/09/11

Simon Reynolds a Milano

Continua il tour di Simon Reynolds!
Stasera l'autore di Retromania sarà a Milano. Alle 19.00 presentazione del libro Retromania alla Fnac di via Torino, con l’autore interviengono Carlo Antonelli e Michele Piumini. Dalle 22.00 allo Zoom bar (via panfilo castaldi 26) dj set con l’autore, Lele Sacchi, Fabio De Luca.


12/09/11

Simon Reynolds: RETROLOGIA #5



Qualche novità rétro e qualche previsione fatta da Reynolds al momento della stesura del libro sui fenomeni musicali vintage del 2011 e 2012:

«2011/Gennaio: la Rhino Records annuncia un cofanetto da sessanta dischi con ogni singola data del tour europeo dei Grateful Dead nel 1972. Poche ore dopo l’apertura della prevendita, le 7200 copie – 450 dollari l’una – sono già esaurite >>>> 2011/Febbraio: si intensifica la nostalgia rétro della metà degli anni novanta con la reunion dei Seefeel, una micro-leggenda del post-rock, che pubblicano il primo album dopo quattordici anni >>>> 2011/Marzo: il tecno-futurista Richie Hawtin, alias Plastikman, pubblica la retrospettiva in undici cd «Arkives Reference 1993-2010» >>>> 2011/Marzo: primo album dei Vaccines, neo-britpop definiti «rivoluzionari» da Clash Music per il loro amalgama di (parole della band) «rock’n’roll anni cinquanta, garage e gruppi femminili anni sessanta, punk anni settanta, hardcore americano anni ottanta, C86» >>>> 2011/Giugno: Here and Now, i promoter nostalgici degli eighties, festeggiano i dieci anni di attività organizzando un tour britannico con Boy George, Jimmy Somerville, Midge Ure, A Flock of Seagulls, Jason Donovan, Jean Baudrillard e Pepsi & Shirlie >>>> 2011/Estate: esce il biopic su Dennis Wilson in occasione del cinquantesimo anniversario dei Beach Boys >>>> 2011/Ottobre: il tour «Lost Generation All Stars» dei post-rocker del Regno Unito (Disco Inferno, Moonshake, Long Fin Killie, Crescent, Third Eye Foundation), diciassette date in Gran Bretagna >>>> 2011/Novembre: la campagna su facebook per convincere Iggy Pop a non togliersi la maglietta supera i quattro milioni di firme >>>> 2011/Dicembre: Julien Temple trasforma inaspettatamente la sua trilogia di documentari punk in una tetralogia con So What, un film sugli Anti-Nowhere League >>>> 2012/Gennaio: esce It’s Trad, Dad, il film di Shane Meadows sulla scena revival-jazz inglese degli anni cinquanta, con Julian Barratt nei panni di Ken Colyer e David Mitchell in quelli di George Melly >>>> 2012/30 Aprile: i Culture Club si riformano e celebrano con un concerto i trent’anni del primo singolo White Boy >>>> 2012/Estate: i rinati Stone Roses sono gli artisti di punta di una serata del Glastonbury Festival, con Graham Lambert degli Inspiral Carpets al posto di John Squire, che si rifiuta di partecipare >>>>»

09/09/11

I Dr. Feelgood e il Pub Rock



Signor Hulot oggi ci parla di Pub Rock.

Reynolds è un critico fuori del comune perché riesce a tenere assieme, nei suoi libri, un discorso teorico ambizioso e la capacità di far emergere dalla grande corrente del pop e del rock una serie di percorsi alternativi. Con erudizione sorprendente (ma mai fine a se stessa), Reynolds è capace di mettere in relazione mondi musicali molto diversi, rendendo la lettura dei suoi libri un viaggio entusiasmante nella musica di ieri e di oggi. Retromania non fa eccezione, e, accanto al tema centrale del libro – la difficoltà da parte della musica di oggi di ritrovare un'autentica capacità di "rompere" con il passato – Reynolds dispone una serie di sottotrame che dimostrano come il rapporto di attaccamento amorevole e un po' ossessivo con il passato sia parte integrante della storia della cultura pop.
Reynolds parla ad esempio del Pub Rock, un mix energetico di rhythm and blues, rock 'n' roll delle origini, elettricità hard e carica adrenalinica degna dei primi mod (un paio di nomi, Nick Lowe e Ian Dury).
Il Pub Rock è nato all'inizio degli anni settanta e si è proposto come alternativa rispetto alla tendenza dominante dell'underground del tempo, vale a dire quella vena di progressive jazzato che aveva portato, ad esempio, alla nascita della scuola di Canterbury (Soft Machine, Hatfield & the Nord). Il pub rock proponeva un ritorno ai fondamentali del rock (e per questo se ne parla in Retromania): niente orpelli né virtuosismi da universitari o da studenti di art school, ma una grande carica energetica attinta direttamente dalla fonte del rock 'n' roll anni cinquanta e dai gruppi inglesi che lo avevano ripreso negli anni sessanta, come Johnny Kidd & The Pirates.

Il più celebre gruppo pub rock sono stati senza dubbio i Dr. Feelgood, quattro dandy da periferia industriale con una fissa per il rythm and blues. Venivano da Canvey Island, una cittadina depressa nell'estuario del Tamigi, famosa per un grande terminale petrolifero e per le industrie petrolchimiche (e infatti il documentario del 2010 di Julian Temple sul gruppo si intitola Oil city confidential). Proprio la loro origine fieramente proletaria, associata a un gusto per gli eccessi, li rese subito gli idoli della popolazione bianca working class che, ancora in attesa del punk, non apprezzava molto le raffinatezze arty di Bowie o dei Roxy Music.
Il loro nome veniva dal bluesman Willie "Dr. Feelgood" Perryman (ed era anche lo slang per l'eroina). Mischiavano rudezza e strafottenza protopunk ed eleganza da mod, con pantaloni stretti, giacche e scarpe a punta (e ai mod li accomunava la passione per le anfetamine). Le facce dicevano tutto: John B. Sparks, il bassista, sfoggiava dei baffoni da biker, The Big Figure, il batterista, era una versione debosciata di un personaggio tarantiniano. Ma i fari del gruppo erano gli altri due. Wilko Johnson, una specie di beat smilzo fuori tempo massimo, con un caschetto beatlesiano e uno stile nervoso: suonava la chitarra senza plettro, riuscendo a imprimere ai pezzi una dinamica stranissima, con rasoiate che facevano sfociare il riff in mini assoli. E Lee Brilleaux, voce grattata e occhi allucinati, che amava vestirsi di bianco e sfoggiava una grinta tale e quale a quella del DCI Gene Hunt di Life on Mars. Dal vivo il gruppo era una macchina potente e rabbiosa, come una grossa Triumph senza marmitta, pronta a lanciarsi lungo la foce sabbiosa del Tamigi.
Il loro primo disco, Down by the Jetty uscì nel 1975 (registrato in mono, da veri retromaniaci). Seguirono poi Malpractice, nello stesso anno (copertina fantastica, in bianco e nero, coi quattro davanti alla vetrina di un parrucchiere) e il live Stupidity, del 1976, che li portò in cima alle classifiche inglesi. Il gruppo farà ancora qualche bel disco, ma nel 1977 esplode il punk, Wilko esce dal gruppo ed è già troppo tardi per il pub rock. Lee Brilleaux è morto nel 1995, di cancro. Il gruppo, nella sua forma originale, non esisteva più da parecchio tempo.
Ma all'eternità sono consegnati da She does it right, la bomba che apriva il primo disco. Date un'occhiata, nel video, ai movimenti a scatti, da fatti duri di anfetamina, la camminata di Wilko con la chitarra, Lee che scatta come una marionetta impazzita, gli altri due che danno il tempo. Ascoltate il suono della chitarra, già elettricità post punk. Capirete la grandezza di questi quattro. 




06/09/11

Retromania: il Sommario

Per tutti i nostri lettori il sommario del nuovo libro di Simon Reynolds, Retromania. Sfogliabile online su Issuu.

05/09/11

Simon Reynolds: RETROLOGIA #4 (Breve ripresa)



I nuovi revival del 2010 (Parte quarta)
«2010/Gennaio: Esce nel Regno Unito Sex & Drugs & Rock & Roll, il biopic su Ian Dury con Andy Serkis (l’attore che ha interpretato Martin Hannett in 24 Hour Party People) nei panni del cantante dei Blockheads >>>> 2010/Febbraio: continua il mini-boom retro-pub-rock con Oil City Confidential dedicato ai Dr Feelgood, l’ultimo capitolo della trilogia di documentari punk di Julien Temple dopo The Filth And The Fury e Il futuro non è scritto – Joe Strummer >>>> 2010/Febbraio: VH1 lancia Behind the Music Remastered, una «riedizione» della fortunata serie di rockumentari Behind the Music. Le storie dei gruppi (per esempio i Metallica) sono aggiornate con interviste e filmati successivi alla prima edizione >>>> 2010/Febbraio: con il placito dell’English Heritage, Margaret Hodge, ministro della Cultura del governo laburista, assegna il secondo livello dello «statuto di protezione» ad Abbey Road, dopo le proteste pubbliche di fronte all’annunciata vendita dello studio di registrazione dei Beatles da parte della emi Records >>>> 2010/Aprile: Esce The Runaways, biopic sull’omonima band femminile proto-punk della futura star Joan Jett formata negli anni settanta dallo scaltro manager Kim Fowley >>>> 2010/Aprile: Liam Gallagher degli Oasis, fan numero 1 di John Lennon, annuncia che la sua neonata casa di produzione cinematografica In 1 Productions sta lavorando a un documentario sulla caotica storia della società beatlesiana Apple Corps >>>> 2010/Aprile: Don’t Look Back celebra il quinto anniversario con gli Stooges in «Raw Power» e i Suicide nel loro omonimo primo album. La storia degli Stooges originari si è chiusa nel 2009 con la morte del chitarrista Ron Asheton, ma Iggy Pop assicura che la nuova formazione nota come Iggy and The Stooges (alla chitarra James Williamson, tra i musicisti di «Raw Power») è ancora attiva e intende registrare altri album >>>> 2010/Aprile: il grime rapper Plan B si reinventa in chiave retro-soul winehousiana con «The Defamation of Strickland Banks». L’album ottiene tre dischi di platino nel Regno Unito >>>> 2010/Maggio: Peter Hook celebra il trentennale della morte di Ian Curtis eseguendo l’intero «Unknown Pleasures» con i Light, il suo nuovo gruppo. Altre esibizioni commemorative hanno luogo a Macclesfield e al Factory Club di Manchester, mentre il tour dei «luoghi curtisiani» a Macclesfield attira fan dei Joy Division da ogni angolo del globo >>>> 2010/Maggio: i Rolling Stones ripubblicano «Exile on Main Street» del 1972 in versione deluxe arricchita, con dieci tracce inedite e Stones in Exile, un documentario sulla realizzazione del leggendario album >>>> 2010/Maggio: l’editore statunitense Dutton annuncia la pubblicazione di una storia orale dell’Età dell’Oro di MTV (dal 1981 al 1992, anno in cui i reality si impadronirono del canale) per l’estate del 2011, trentesimo anniversario dell’emittente >>>> 2010/Maggio: apre a Macon, Georgia, l’Allman Brothers Museum, con sede a Big House, la comune dove risiedevano i musicisti e le famiglie >>>> 2010/Giugno: i Devo si riformano e pubblicano «Something for Everybody», il primo album dopo vent’anni >>>> 2010/Luglio (forse il non plus ultra degli exploit retromaniaci): Beck ri-registra l’album «EVOL» dei Sonic Youth (1986) per pubblicarlo in cassetta come parte di un cofanetto del gruppo newyorchese. Cover album + feticismo per le cassette + cofanetto = gioco e partita a Beck >>>> 2010/Agosto: Esce Banned in the UK – Sex Pistols Exiled to Oslo in 1977, un libro fotografico dedicato a un concerto della band in Norvegia >>>> 2010/Agosto: con Mick Hucknall dei Simply Red al posto di Rod Stewart e Glen Matlock dei Sex Pistols al basso, i Faces si riformano per un concerto a Vintage at Goodwood, un festival «per gente che si sente troppo vecchia a Glastonbury [...] e un omaggio al cool britannico dagli anni quaranta agli ottanta». In cartellone anche Buzzcocks e Heaven 17 >>>> 2010/Settembre: i Pavement si riformano per un concerto al Rumsey Playfield di Central Park, New York, il primo dopo oltre dieci anni >>>> 2010/Settembre: quasi trent’anni dopo aver scalato le classifiche con la cover di You Can’t Hurry Love delle Supremes, Phil Collins pubblica «Going Back», un tributo alla Motown. Collins spiega che, nel rifare diciotto classici anni sessanta con l’aiuto dei Funk Brothers (l’originaria squadra di killer Motown), il suo «intento era fare un disco “vecchio”, non un disco “nuovo”» >>>> 2010/Settembre: i leggendari agitatori post-punk del Pop Group si riuniscono per due concerti >>>> 2010/Settembre: impazza il dark revival; escono «King Night» – il primo disco della Salem, pionieristica etichetta «witch house», un ep condiviso da Zola Jesus e LA Vampires – e il primo ep dei Raime, un duo dubstep di scuola 4AD, pubblicato dalla Blackest Ever Black >>>> 2010/Settembre: il cold wave revival entra nel vivo con «The Brutal Wave» dei Frank (Just Frank), pubblicato dalla Wierd Records di New York, e un ep a doppia firma Soviet Soviet-Frank (Just Frank) uscito per la Mannequin >>>> 2010/Settembre: Esce SoulBoy, il film di Shimmy Marcus sul northern soul. L’uscita di Northern Soul di Elaine Constantine, un’altra pellicola sulla scena revivalista primi anni settanta, è prevista per il 2011 >>>> 2010/Settembre: Roger Waters lancia il tour globale di The Wall con 117 concerti in Nordamerica ed Europa e altri a seguire in tutto il mondo, sempre che il fisico regga >>>> 2010/Settembre-Ottobre: sottolineando che non si tratta di una reunion dei Crass, il cantante dei Crass Steve Ignorant lancia il tour The Last Supper: Crass Songs 1972-1982, un’appendice delle esecuzioni live di «The Feeding of the 5000» (primo lp dei Crass) allo Shepherd’s Bush Empire di Londra nel 2007. 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Presentati anche documentari su Lemmy dei Motörhead, sulla reunion dei Mott the Hoople dopo trentacinque anni e su Stephen Merritt >>>> 2010/Ottobre: viene annunciato che Sacha Baron Cohen (alias Ali G e Borat) interpreterà Freddie Mercury in un biopic sul cantante dei Queen >>>> 2010/Ottobre: Mark Ronson, il produttore retro-soul di Amy Winehouse, si converte al saccheggio degli anni ottanta con «Record Collection», un album con cameo vocali di Simon Le Bon e Boy George >>>> 2010/Ottobre: a ventisette anni dalla fine del fenomeno, Elly Jackson dei La Roux si accorge che il synthpop è «morto e sepolto. Lo adoravo ma adesso mi annoia. Non voglio più fare synth per il resto della mia cazzo di vita. 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