16/01/12

Sampling, hauntology e mash-up


Il sampling è uno strano animale, ma ancora più strana è la rapidità con la quale ci abbiamo fatto il callo. E non parlo solo del fatto che, pochi anni dopo la diffusione del fenomeno a metà degli ottanta, era difficile trovare un musicista eticamente contrario al campionamento della propria musica. A essere davvero incredibile è il modo in cui abbiamo accettato come parte integrante della nostra vita d’ascolto – e accettato come – i dischi composti di frammenti di altri dischi: segmenti di performance isolati dalla loro collocazione spazio- temporale originale.
La stranezza del sampling è venuta meno dopo tutti questi anni, ma nel 2005 mi colpì a livello viscerale – e non succedeva da un’eternità – quando ascoltai Caermaen di Belbury Poly, dall’album «The Willows». È evidente dall’enunciazione pittoresca e dalla tessitura deteriorata del sample – come carta ingiallita e sgualcita – che il malinconico cantante folk inglese era stato registrato molti, molti decenni prima. La voce nebulosa e misteriosa invita l’ascoltatore ad avvicinarsi, ma il significato continua a sfuggire: per quanto aguzzi le orecchie, è praticamente impossibile decifrare una sola parola. L’arrangiamento elettronico-medievale nel quale è incorniciata basta a rendere spettrale Caermaen, ma la storia dietro al brano fa davvero accapponare la pelle. Jim Jupp (il vero nome di Belbury Poly) aveva scoperto la melodia vocale – Joseph Taylor che canta Bold William Taylor – su un cd di musica tradizionale inglese. La versione era stata incisa nel 1908 su un cilindro fonografico dal collezionista Percy Grainger. Campionando l’intero brano, Jupp aveva «alterato la velocità e l’altezza per poi ricostruirlo in modo da creare una melodia diversa con parole incomprensibili». Insomma, aveva fatto cantare una canzone nuova a un uomo morto. Un artista più superstizioso avrebbe potuto esitare prima di prendersi una simile libertà. Caermaen e la sua storia furono come un vivido flashback sul disorientamento provocato dai primi dischi hip hop interamente costruiti sul sampling, tracce del 1986-87 di produttori come Herby Azor e Marly Marl. Ispirato da «Hot, Cool & Vicious», l’album delle Salt-N-Pepa prodotto da Azor, all’epoca scrissi un articolo sull’attrito sensuale ma soprannaturale di quei groove, cuciti insieme a partire da porzioni smembrate di pezzi funk e soul riportati in vita stile Frankenstein. Soprannaturale per via della «giustapposizione spettrale» delle molteplici atmosfere di studio ed epoche. L’etichetta di Belbury Poly, guarda caso, si chiama Ghost Box.

Simon Reynolds, Retromania, pp. 323-324 


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