13/12/11

Cosa diavolo ne sarà della mia collezione?



Un giorno la realtà mi ha colpito come un pugno in faccia: avevo accumulato un immenso archivio personale di prodotti audio.
Certo, potevo attribuirlo all’incessante fiume di dischi omaggio che ricevo per posta, ma la verità era che avevo imboccato questa strada ben prima di diventare un giornalista musicale. Nella Oxford di metà anni ottanta, da ex studente che viveva del sussidio di disoccupazione, registravo su cassetta gli lp delle biblioteche pubbliche, «giusto in caso»; poi, quando cominciai a guadagnarmi da vivere come freelance, presi a comprare ogni disco che mi incuriosiva.
Confesso, non senza vergogna, che alcuni sono ancora avvolti nella pellicola di plastica. (Ma non dimentichiamo che nel xx secolo Walter Benjamin – il grande filosofo del collezionismo, del curiosare nei negozi e di quello che oggi chiameremmo vintage shopping – sosteneva che «la non lettura dei libri» fosse un tratto distintivo del vero bibliomane, citando il caso di Anatole France, il quale ammetteva candidamente di aver letto a malapena un decimo dei volumi della sua biblioteca.) Quando il vinile riempie gli scaffali e i ripostigli di tutta la casa, quando hai altri dischi chiusi negli armadietti metallici in cantina, quando quindici anni dopo esserti trasferito negli Stati Uniti hai ancora un box a Londra pieno di cd, cassette, lp e singoli... be’, è ora di affrontare la realtà. Sei un collezionista, per giunta cronico, e hai superato da un pezzo la fase in cui non era che un semplice passatempo gestibile e salutare. Un accumulo così gigantesco di musica registrata esercita inevitabilmente una certa pressione subliminale. Inizi a chiederti non già se riuscirai a fare nuove scoperte, ma se ti rimangono abbastanza giorni da vivere per poter riascoltare almeno una volta le cose che ti piacciono.
L’equivalente musical-ossessivo della crisi di mezza età è quando tutte quelle potenziali meraviglie impilate sulle mensole smettono di darti piacere e cominciano a somigliare a messaggeri di morte.
Ironia crudele, perché l’interpretazione psicanalitica standard del collezionismo compulsivo lo vede come un tentativo di scongiurare la morte, o quantomeno di rimuovere quelle ansie astratte e inconsolabili spesso radicate nei sentimenti di smarrimento infantile. Avere tanta roba, secondo la logica inconscia, ci protegge dalla perdita, ma questa stessa roba un giorno finirà per ricordarci l’ineluttabilità della perdita. «L’idea di morire mi terrorizza» dice Gareth Goddard, collezionista e fondatore dell’etichetta di ristampe Cherrystones. «Perché penso: “Cosa diavolo ne sarà della mia collezione?”».
Lo confesso, il pensiero della fine che faranno i miei dischi quando non ci sarò più a volte mi balugina nella mente. Non che mia moglie non avrà questioni molto più urgenti da affrontare, ma quante
volte le ho ripetuto che non dovrà portarli al primo centro dell’Esercito della Salvezza. Sono consapevole del loro valore, ma non è solo questo: è il timore che i miei preziosi dischi vengano maltrattati. A livello profondo, è come se Gareth Goddard e io fossimo già in lutto per la nostra scomparsa. I dischi sono noi, rappresentano una porzione rilevante di ciò che abbiamo fatto del nostro tempo su questo pianeta, le ore d’impegno e amore di cui nessuno sa.

Retromania, pag. 114-115

3 commenti:

  1. Io consiglierei a Simon di regalarli a me, i suoi dischi: non avrei paura di affittare un garage, solo per tenerceli tutti dentro. Scherzi a parte, in effetti il solo pensiero di dover lasciare il proprio materiale culturale (includiamo pure i libri) è un dramma: forse, una soluzione potrebbe essere quella di portarseli letteralmente nella tomba, come facevano i faraoni.

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  2. Biblioteche! Tutto sempre nelle biblioteche. E' il corrispettivo del trapianto d'organi.

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