22/08/11

Simon Reynolds intervista Simon Reynolds


Simon Reynolds nella sua carriera di giornalista musicale ha scritto un numero indefinito di articoli e ha intervistato decine e decine di artisti. Ma una volta gli è anche capitato di intervistare se stesso, come in Totally Wired. Ecco la prima, interessante domanda che Simon Reynolds ha fatto a Simon Reynolds:

Come hai definito il «post-punk»? Sembra un’entità piuttosto… nebulosa.

Il modo in cui l’ho definito in linea di massima è questo: gruppi che erano stati catalizzati dal punk ma che non suonavano punk rock in modo classico, tipo Pistols/Clash. Non sarebbero esistiti se il punk non gli avesse fornito la spinta iniziale, dandogli la sicurezza di fare da sé, però interpretavano il punk come l’imperativo di continuare a cambiare. La grossa eccezione a questa definizione di «catalizzati dal punk» – e che quindi richiedeva una definizione di secondo livello – erano quelle band, come i Devo e i Cabaret Voltaire, che già esistevano anni prima dell’avvento del punk ma che trovarono un pubblico solo dopo, quando il punk ebbe creato una maggiore apertura, e che di conseguenza sono sempre state considerate «post-punk». C’erano diversi livelli in quella apertura. Il punk aveva creato un pubblico affamato di musica stimolante, di estremi di tutti i tipi. Aveva dato uno scossone alle major, che ora si prendevano più facilmente il rischio di mettere sotto contratto una band innovativa, per paura di rimanere indietro. Infine, il punk aveva innescato l’esplosione delle etichette indipendenti, che rappresentavano una rete di distribuzione per tutti quei tipi di musica bizzarra che altrimenti avrebbero dovuto sostenersi con le sole vendite per corrispondenza ma che ora potevano invece raggiungere un pubblico notevolmente più numeroso. Questi tipi di musica avevano anche la possibilità di «significare» in un contesto molto più espanso e ricco di energie.
Forse il modo migliore per pensare al post-punk non è nei termini di un genere ma in quelli di uno spazio di possibilità, dal quale è emerso uno spettro di nuovi generi: dark, industrial, synthpop, mutant disco e altri. Poiché è uno spazio – o forse un discorso sulla musica, più che uno stile musicale – ciò che unisce tutte queste attività è un insieme di imperativi indefiniti: innovazione, eccentricità intenzionale; il rifiuto di tutte le cose che avevano precedenti o che erano «rock’n’roll». Questa indefinitezza incoraggiava la varietà e la divergenza, tanto che alla fine del periodo coperto dal libro la distanza fra un frammento e l’altro del post-punk è diventata molto grande: dal dark al New Pop, dalla «big music» di U2 e Bunnymen alla seconda ondata dell’industrial… Tutti si sono dispersi e hanno preso ognuno la propria strada, spesso del tutto antitetica alle direzioni prese dagli altri. Ma il punto d’origine comune, il mitico luogo dell’unione perduta, è il punk. È il punk il punto di accensione. Il Big Bang.
Perché fermarsi al 1984? La periodizzazione è una faccenda complicata su cui gli storici hanno scritto libri interi: «Che cos’è un’era?», «In quali circostanze si può isolare un segmento temporale come un’epoca definita o delineare uno “spirito dei tempi”?». I periodi sono confusi su entrambe le estremità; si fondono gradualmente per poi sgretolarsi, senza mai sparire del tutto. Nel 1984, però, mi sembrava che ormai le idee e le energie sia del post-punk che della sua inseparabile seconda fase, il New Pop, avessero fatto il loro corso. La maggior parte del gusto all’avanguardia – i musicisti, la critica, i fan – si stava spostando in una direzione rétro. Lo stesso genere di persone che diversi anni prima avrebbe potuto essere nei PiL, negli Scritti, nei Gang of Four, negli Human League non si interessava più della black music contemporanea e non esplorava più l’elettronica; i musicisti erano tornati alla chitarra e alla formazione rock classica, e si erano fissati con gli anni sessanta. Qualche eccezione c’era: un pugno di nuove band aveva ancora fede negli ideali post-punk; l’industrial come genere continuava a crescere; certe figure chiave dell’era postpunk come i Cabaret Voltaire e Mark Stewart seguitavano a fare musica in continuità con le idee del post-punk. Forse si sarebbero potuti vedere Madonna o i Pet Shop Boys come «New Pop tardivo»: moderni ritmi dance + testi eruditi
+ giochi neo-glam con l’immagine e l’identità. Ma la maggioranza della gente influente e al passo con i tempi era occupata a rielaborare il passato del rock. Soprattutto, erano ossessionati dagli anni sessanta.

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